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Prima Guerra Mondiale. Perchè fu ucciso Francesco Ferdinando?

Corriere Sera Arciduca Sarajevo
L’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe e designato erede al trono d’Austria-Ungheria, in occasione della sua visita a Sarajevo, in Bosnia, il 28 giugno 1914, venne assassinato da un giovane studente serbo, Gavrilo Princip, che faceva parte di un “gruppo di fuoco” – in tutto sette attentatori, armati di rivoltelle e di bombe a mano – affiliato all’Associazione “Giovane Bosnia”, che poteva contare sull’appoggio di ufficiali serbi.
Perché questo assassinio, in cui perdette la vita pure la moglie dell’arciduca d’Austria-Ungheria?
A cento anni di distanza dallo scoppio della “Grande Guerra” o Prima Guerra Mondiale lo storico scrive sia sulla scorta di una valida e solida documentazione, sia per una oggettiva esposizione dei fatti in cui le parole hanno anche la funzione di scrostare contenuti da calcinacci di comodo legati a tempi e ideologie ormai obsoleti.
Francesco Ferdinando era ritenuto un elemento pericoloso sia all’interno della compagine dell’impero austro-ungarico, sia all’esterno di essa. Perché era il “sostenitore convinto del sistema trialistico, secondo il quale si sarebbero dovuti associare gli Slavi agli Austriaci e agli Ungheresi nel governo dell’Impero”(Morghen).
Nel sistema trialistico, portato avanti da Francesco Ferdinando, la Croazia, la Dalmazia, la Slavonia e la Bosnia avrebbero dovuto essere riunite come Terzo Stato(slavo) autonomo e alla pari(cioè equiparato costituzionalmente) con l’Austria e l’Ungheria, sotto la corona degli Asburgo, che sarebbe venuta così a fondarsi su tre gruppi etnici(Tedeschi, Magiari, Slavi).
Ricevendo, in questo modo, la stessa dignità e la stessa rappresentanza, gli stessi diritti e gli stessi doveri, degli Austriaci e degli Ungheresi, tutte le nazionalità presenti all’interno dei confini dell’Impero avrebbero contribuito a cementare e a rendere unitaria e indissolubile quella che si sarebbe presentata come una compagine federale(e supernazionale) sul modello degli Stati Uniti d’America, piuttosto che creare motivi di divisione di tensione e di dissoluzione.
A questo grande progetto di riforma del sistema vigente portato avanti dall’erede al trono si opponevano:
– l’ottantenne imperatore Francesco Giuseppe, che, nella seconda metà del milleottocento, inasprì sempre più le forme di governo autoritario e si rese sordo e cieco di fronte alle richieste paritarie dei sudditi di nazionalità non austriaca e non ungherese;
– la burocrazia imperiale, l’aristocrazia, il clero e l’esercito, che appoggiavano l’antico privilegio dell’imperatore austro-ungarico di emanare leggi durante le vacanze del Parlamento; e che concordavano per soluzioni che reprimessero, con la forza delle armi, ogni movimento di autonomia o d’indipendenza delle nazionalità slava e italiana all’interno dell’Impero;
– le Associazioni Nazionalistiche Serbe(che propugnavano la formazione di una “Grande Serbia”), le quali temevano che i Serbi i Croati gli Sloveni i Dalmati dell’Impero Austriaco, una volta accontentati nelle loro aspirazioni dalla riforma portata avanti da Francesco Ferdinando, non sentissero più la necessità di staccarsi dall’Impero austro-ungarico e di riunirsi in un unico regno balcanico di razza slava;
– l’Impero russo degli zar, che aveva stretto un patto di alleanza con la Serbia, la quale rappresentava la “Longa Manus” delle antiche aspirazioni che aveva dovuto subire, senza essere in grado di reagire militarmente, due colpi di mano da parte dell’Impero austro-ungarico: il primo, nel 1878,
al tempo del congresso di Berlino, quando gli Austriaci avevano occupato militarmente la Bosnia-Erzegovina; il secondo, nel 1908, quando gli Austriaci avevano trasformato questa occupazione militare in annessione di fatto del territorio occupato.
Quando l’Austria-Ungheria, il 23 luglio del 1914, inviò l’ultimatum alla Serbia con l’obbligo di risposta entro quarantottore, il Presidente della Repubblica Francese (Poincarè) e il Presidente del governo francese (Viviani) erano a Pietroburgo. Entrambi assicurarono allo zar l’appoggio militare della Francia, nel caso in cui l’Impero russo fosse accorso in difesa della Serbia invasa dagli Austriaci.
L’Europa prese fuoco nel giro di pochi giorni e questo fatto dimostra che nessuno degli Stati europei volle buttare acqua in quell’incendio, che sarebbe diventato mondiale, per spegnerlo. Non lo fecero:
– l’Austria-Ungheria per dare una dura lezione(ma non solo) alla Serbia;
– l’Impero russo per difendere i Serbi, ma in realtà per muovere contro gli Austriaci allo scopo di realizzare le sue aspirazioni espansionistiche nei Balcani;
– l’Impero germanico per tenere fede all’alleanza con l’Austria-Ungheria, ma soprattutto per fare straripare, oltre i confini tedeschi, quello che era il più potente e disciplinato esercito d’Europa;
– la Francia per non venire meno all’alleanza con la Russia, ma principalmente per cancellare con le armi l’umiliazione subita, nel 1870, con la disastrosa sconfitta e invasione del suo territorio ad opera del Regno di Prussia(che sarebbe diventato la Germania imperiale) e per riprendersi i territori dell’Alsazia e della Lorena, che aveva dovuto cedere;
– la Gran Bretagna per difendere la neutralità del Belgio invaso dai Tedeschi, ma per salvaguardare, in primo luogo, il suo predominio su tutti i mari, che considerava indiscutibile.
E l’Italia?
Tante volte, nel corso dei miei anni d’insegnamento(Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), feci mia, e condivisi con i miei alunni di Scuola Media e degli Istituti superiori, una intelligentissima frase dello storico Raffaello Morghen: “Come al solito, l’Italia era rimasta sorpresa dagli avvenimenti europei dell’estate del 1914”.
E, nella condizione di dovere prendere gravi decisioni, il 2 Agosto del
1914 dichiarò la sua neutralità.
L’avesse mantenuta per tutta la durata della guerra! Quante rovine e lutti avrebbe evitato agli Italiani!
Le gravi decisioni, che prese in seguito, la portarono scendere in guerra il 24 maggio del 1915, a combattere contro gli antichi alleati tedeschi e austro- ungarici, schierandosi a fianco dei francesi degli inglesi e dei russi.
Facendo conoscere a centinaia di migliaia di fanti e a decine di migliaia di sottoufficiali e ufficiali fango pulci pidocchi, densa e appiccicosa melma, epidemie di tifo, filo spinato trincee camminamenti, attacchi e contrattacchi, tempeste di granate, gas venefici, lamenti di uomini, monconi di braccia e di gambe, brandelli macabri di carne e di ossa, orrende mutilazioni, crani trapassati, frammenti di divise, carcasse di cavalli di buoi di pecore e di capre, la natura deturpata e la terra di nessuno che separa il nemico inglese o francese o russo o italiano o americano dal nemico tedesco o austro-ungarico.
Ma dalle macerie e dai bagni di sangue delle vittorie e delle sconfitte scaturirono i capolavori del pensiero universale a testimonianza di una criminale follia distruttiva, sia da parte delle forze dell’Intesa, sia da parte delle forze degli Imperi Centrali, dispiegatasi per diversi anni e non solo nel continente europeo:
– Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque;
– Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu;
– La rivolta dei Santi maledetti di Curzio Malaparte;
– Giorni di guerra di Giovanni Comisso;
– La commedia di Charleroy di Drieu La Rochelle;
– Orizzonti di gloria di Humphrey Cobb ;
– Addio alle armi di Ernest Hemingway.
E, al di sopra di tutto, gli immortali versi dell’uomo ancora vivo e tutto intero; l’uomo che è carne sangue ossa, mente sentimento pensiero: l’umile fante Giuseppe Ungaretti, che ha trascorso la notte nella trincea e che – guardando il cielo lontano sopra di lui, nell’espansione e interiorizzazione della luce del mattino, rasserenatrice e liberatrice – alla fine del lungo dormiveglia e degli opprimenti incubi di morte, che hanno popolato e sconvolto il suo animo, anche per un attimo solo può dire una volta ancora: M’illumino D’immenso.

Antonio Cammarana

Una lezione di storia francese

rousseau
Nel libro che ha come titolo “Le Confessioni” Gian Giacomo Rousseau (Ginevra 1712 – Ermenonville 1778) parla, con dovizia di particolari, di un incontro con un contadino francese intorno al 1780, pochi anni prima che, in Francia, scoppiasse la rivoluzione del 1789, che fece conoscere al mondo sia gli “immortali principi” di libertà uguaglianza fratellanza, sia tutto ciò che un popolo, rovinato dalle tasse e affamato da una classe dirigente impomatata imbelle e
vanesia, sapeva fare con una ghigliottina.
Il filosofo ginevrino un giorno non riuscì a ritrovare la strada maestra, dopo avere camminato a lungo in aperta campagna. Per questo motivo “stanco e morto di sete e di fame”, entrò nella casa di un contadino, “la sola che si vedesse in quei luoghi”. Rousseau chiese da mangiare, naturalmente pagando ciò che gli sarebbe stato dato. Il contadino “offrì latte scremato e del rozzo pane d’orzo, dicendo che non aveva altro”. Il filosofo bevve “il latte con voluttà” e mangiò “quel pane, ma questo non poteva ristorare un uomo esausto dalla fatica”. Il contadino, vedendo che gli stava davanti un “bravo e onesto giovanotto, incapace di tradirlo”, si diresse verso una botola nel pavimento, la sollevò, discese e, non molto tempo dopo, riapparve alla sua presenza “con un buon pane bigio di puro frumento, un prosciutto molto appetitoso, una bottiglia di vino, la cui vista rallegrò il cuore” dell’ospite inatteso. A tutto questo poi aggiunse “una frittata ben grossa”, facendo fare in questo modo “un pasto quale può immaginare chi viaggia a piedi”.
Il benessere che Rousseau provò lo spinse a chiedere subito quanto gli dovesse, ma quello rifiutava il suo denaro, mostrando nel volto e nei gesti “un turbamento strano”. E, soltanto, dopo molte domande da parte di Rousseau, il contadino disse che “nascondeva il suo vino per causa dei dazi, il pane per le taglie (cioè per le tasse) e che egli sarebbe stato rovinato, se si fosse sospettato che non moriva proprio di fame”. Il filosofo Gian Giacomo Rousseau conclude il brano dicendo: “Quest’uomo agiato non osava mangiare il pane guadagnato con il sudore della fronte e poteva salvarsi dalla rovina soltanto simulando la miseria” allo scopo di pagare meno tasse.
Nella Francia prerivoluzionaria del diciottesimo secolo, pagava le tasse soltanto il “Terzo Stato”, di cui facevano parte commercianti, banchieri, industriali, uomini di lettere di medicina di scienza, avvocati, ingegneri, così come coloni, bottegai, contadini: in pratica tutti quelli che non erano né nobili, né preti, una maggioranza schiacciante a fronte di una risibilissima minoranza di “porcelli”.
Nobili e preti, in passato, erano stati anche guida del popolo, ma nello scorcio del 1700 erano visti ormai come sfruttatori, parassiti e sanguisughe ed oggetto soltanto di odio da parte dei meno (e non) abbienti.
La situazione prerivoluzionaria, in Francia, precipitò in una rivoluzione vera e propria, in verità anche per altre cause, ma la miccia che provocò l’incendio fu la gravissima crisi finanziaria, che l’ottusità cronica della nobiltà, del clero e della monarchia (cioè la casta e il palazzo) provocò con la seguente soluzione: fare pagare altre (e più pesanti) tasse a coloro i quali erano stati portati prima alla rovina economica, poi alla rovina fisica, togliendo loro non solo la camicia, ma anche la stessa la pelle del corpo.
Gli Stati, che vivono una situazione prerivoluzionaria simile a quella della Francia del diciottesimo secolo, dalla Storia non traggono nessuna lezione, continuando a strozzare i cittadini, che hanno avuto la cattiva ventura di non nascere e crescere altrove, inermi prigionieri e vittime di un vortice fiscale e di un sistema di riscossione, che sono un crudele ritrovato di criminale tortura della mente umana.

Antonio Cammarana