Quando alle sue orecchie arrivarono soltanto miagolii di gatti e abbaiare di cani, Ignazio si alzò per fumare una sigaretta all’aperto nella strada parallela al Corso. Fuori non faceva freddo, né spirava vento.
A Ignazio il paese parve immerso dentro la profonda notte, prima che nel sonno: una notte, che l’immenso cielo scuro apparentava al vasto “mare nero”, nelle cui acque culturali aveva vissuto la lunga veglia del ghetto.
Le casette a pianterreno di fronte alla sua appartenevano alla famiglia di Ignazio e degli zii paterni da oltre un secolo e conservavano un aspetto ostinatamente storico e malinconicamente decadente.
Alla sua sinistra Ignazio osservò la casa adibita a deposito di carrube, la cui porta e la cui finestra venivano intonacate di gesso per impedire al fortissimo odore di espandersi per l’abitato circostante. Essa non conteneva più quintali di carrube come nel passato, ma ospitava decine di gatti che vi avevano fissato la loro residenza notturna, nei mesi invernali, per via di un considerevole buco mai riparato nella porta d’ingresso e che, quando la temperatura scendeva sotto lo zero, levavano al cielo prolungati lamenti. Ignazio ricordò le sere di fine estate in cui, davanti a quella casetta, si fermavano bestie e carri con sacchi pieni di carrube che, una volta vuotati, avrebbero formato un mucchio largo quanto il pianterreno che, giorno dopo giorno, copriva le pareti e, alla fine, toccava il tetto e la cui porta, dopo essere stata chiusa, era aperta nel tempo in cui i sensali giravano per il paese come avanguardia di trattativa economica dei commercianti.
Allora, non molto tempo dopo aver fissato un accordo sul prezzo e avere ricevuto la caparra, arrivavano i camion e veniva chiamato il vigile urbano che, con tanto di cappello e di divisa di uomo della legge, impediva il passaggio ad autovetture e carri lungo la strada ed era portato fuori il bilico e, per tutto il giorno, era un insaccare e un pesare carrube e la sera, quando i mezzi di trasporto carichi di prodotto andavano via, la madre e le zie, in cucina, contavano i denari di carta di ferro e di alluminio, che avrebbero permesso alle loro famiglie di guardare con fiducia i giorni a venire, ringraziando ancora la benevolenza del cielo e la grazia di Dio per non avere abbandonato le loro campagne e le loro case.
Accanto alla casetta delle carrube c’era la dispensa. Continuavano a chiamarla così perché, fino al primo governo Giolitti, aveva ospitato enormi botti di vino, in parte bevuto, in gran parte venduto. Trasformato – in seguito all’arrivo della fillossera, che aveva distrutto le viti della contrada e della contea – il vigneto in mandorleto e uliveto, soltanto una botte capace e una di più ridotte dimensioni rimasero nella dispensa, testimoni mute di un tempo e di un luogo ove Bacco aveva dimorato a lungo.
Nei mesi di luglio e di agosto l’antica dispensa diventava luogo di deposito di quintali di mandorle. Qui si fermavano, infatti, come ultima meta, a mezzogiorno e di sera, asini stracarichi di sacchi di mandorle, dopo l’abbacchiatura e la raccolta nei campi. A togliere le bucce, che ricoprivano la scorza e il frutto, lavoravano tutti quelli che, delle famiglie, rimanevano in paese: Ignazio, la madre, le zie, i cugini.
Dall’alba al tramonto prima sbucciavano le mandorle al fresco, poi le stendevano al sole come lenzuola color terra, perché il frutto dentro la crosta si asciugasse per bene e non ammuffisse, per poter essere venduto.
A intervalli di un’ora, Ignazio il cugino Rosario e il cugino Luigi, a torso nudo, il fazzoletto in testa e il tridente in mano, in tutto simili a solari Poseidoni, andavano a smuovere il prodotto affinché i raggi infuocati di Elios lo penetrassero da tutte le parti. Intanto Ignazio cantava: “Suli ca spacchi i petri da chianura, suli c’abbruci l’ossa c’a calura…”. Quando l’ardente morso del sole cominciava a far posto alla dolce ombra, che lentamente calava sui marciapiedi, delle mandorle si facevano grandi mucchi che, in capaci canestri e corbelli, si portavano nella dispensa. Ora che la madre e le zie si ritiravano in casa per cambiarsi d’abito e preparare la cena, iniziando a far bollire l’acqua nella tannura, Ignazio e i cugini spalavano il marciapiede dalle bucce, che il mattino seguente sarebbero state disperse nei campi.
E mentre si aspettava l’ultimo carico di mandorle e l’aria tutt’intorno si faceva più fresca, Ignazio spendeva il tempo a giocare con i compagni nella strada e, quando da lontano – con l’ultima lama di luce, che stava per essere sopraffatta dalle serali sfumature del grigio e del nero – vedeva il padre con i fratelli, i contadini e gli animali, che portavano gli ultimi sacchi, correva loro incontro, mandando al cielo grida di gioia: il padre lo metteva a sedere sopra il dorso peloso e sudaticcio di una bestia, compensando, in tal modo, una non lieve giornata di lavoro del suo ragazzo.
E Ignazio era felice di fare ritorno a casa sopra un asino o un cavallo per un centinaio di metri. Così passava l’estate. Tutta intera.
Ma giorni restavano ancora – prima dell’inizio dell’anno scolastico – a Ignazio e ai suoi compagni per sognare inesistenti vacanze al mare in montagna in collina in compagnia di femmine belle e di molta carne. E, poi, quando finivano i sogni, l’ultimo scampolo di solleone si trascorreva andando a caccia di verdi lucertole e di neri calabroni e di variopinti serpentelli d’acqua e di macchia.
Ed ore si vivevano all’aperto, sdraiati per terra, ora fissando l’orizzonte di un azzurro assoluto, ora ascoltando il respiro del vento e i frullii degli uccelli, ora sotto l’effetto di soporiferi oppiacei che spontanei crescevano su lunghi steli come piccoli melograni, ora rotolando come umani cilindri – davanti all’occhio indifferente dei cercatori di creta – giù per le oblique scarpate fin nell’incavo di grandi valloni, per risalire contusi e laceri lungo le nascoste serpentine percorse da antichi briganti e ladri di passo in affannosa fuga da uomini di legge e compagni d’armi.
Granchi si cercavano ancora nei punti in cui – come paesaggio di antiche leggende – diventava torrentello il letto del fiume.
Per ricevere alla fine, sulla groppa, un sacco di colpi di scopa a ogni tocco di campana di mezzogiorno, quando, simili a merdosi strapazzieri, la comparsa si faceva di fronte all’uscio di casa. Ma, allora, si era spensierati e un pezzo di pane casereccio con un coccio di zucchero era già un lauto pasto e faceva la gioia anche di quelli che, come Ignazio e i suoi familiari, nel paese, vestivano di nero. Ed erano tanti.Ignazio osservò, poi, il garage: piccolo, bastava appena per una “Topolino”.
Alla sua destra c’era un altro garage della stessa estensione del primo. I due posti macchina, nel passato, erano stati la stalla di animali che, con lavoro non sempre onesto, si erano guadagnati avena e fieno come razione quotidiana e carrube come supplemento straordinario. La stalla aveva avuto una comoda mangiatoia alta a petto d’asino, capace quanto una vasca da bagno di grande dimensione, un solaio sempre ripieno di fieno, un pavimento in terra battuta immancabilmente condito di paglia e cacata.
Decine di asini e di cavalli vi si erano succeduti, secondo il principio adottato dai padroni di comprare un asino se il cavallo acquistato in precedenza si fosse dimostrato stracco, e di non avere mai un mulo perché poteva tirare calci traditori. Non tutti i cavalli si erano dimostrati valorosi nel lavoro, spesso lasciando nei guai i loro proprietari.
Si raccontava di un cavallo di aitante aspetto un episodio che a lungo fu pretesto di ilarità generale. Si era ad ottobre inoltrato, si abbacchiavano e si raccoglievano le olive per portarle al frantoio del paese. Verso sera al cavallo era stato attaccato il carro carico di sacchi e ci si era messi sulla via del ritorno, quando si scatenò un violento temporale, che colse cavallo carro e padroni ancora sulla trazzera. L’animale piegò le ginocchia e non si mosse, nonostante la
tempesta di nerbate che gli si arrovesciava sulla groppa e rischiava di mandarlo all’altro mondo. Rivelatesi inutili anche le imprecazioni e la botta di sancu latru puorcu e assassinu, che uscivano dalle bocche dei padroni che la malaventura rendeva luciferini, si dovette spaiare il cavallo dal carro e, con l’aiuto di parecchi contadini, spingere carro e bestia fino in paese, per non lasciare marcire le olive a causa della pioggia. Ma se la roba fu salva, la reputazione del cavallo e il buon nome dei proprietari andarono in malora. Per anni, anche quando non c’era più, si continuò a parlare di un cavallo tanto fiacco che, ogni sera, dai padroni veniva portato in paese sopra il carro sotto la pioggia. Il cavallo fu messo in vendita e una mattina fu appiccicato a dei forestieri di passaggio, che, del tutto ignari della sua fama, lo portarono dalle loro parti.
Si fece festa, la sera, con il ricavato e si bevve il vino della botte piccola e si andò a letto felici di aver concluso un buon affare. Ma l’indomani mattina, alle prime luci dell’alba, quando il padre di Ignazio uscì di casa per chiamare i fratelli, si ritrovò, davanti alla stalla, il cavallo del buon affare, i compratori del giorno prima e diversi compari di rinforzo con intenzioni non pacifiche. Il cavallo, messo al tiro, si era dimostrato buon incassatore di bastonate, ma cattivo lavoratore, per cui era stato riportato ai suoi vecchi padroni che, vista la mala parata, lo ripresero per venderlo ad altri ignari offerenti.
Ora che il padre di Ignazio e anche i suoi fratelli hanno lasciato per sempre questo mondo, portandosi via un pezzo di storia della comunità – che viveva dei prodotti della terra e che il lavoro l’onestà e il rispetto della legge rese simile all’età dell’oro dell’umanità; ora che il mandorleto è morto e produttivi di miseria sono il carrubeto e l’oliveto; ora che due grigi posti macchina in cemento hanno assassinato la calda stalla dal muro sbrecciato, il vecchio solaio ricco di paglia e fieno e la mangiatoia alta a petto d’asino, rimane il ricordo della via Duca d’Aosta come la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive.Intanto anche la luna era sparita e il buio si era fatto più fitto, e il fresco pizzicava a Ignazio le braccia e il petto.
Come alla fine di un lungo incanto, Ignazio si trovò solo in mezzo alla strada, perplesso, un po’ infreddolito.
La notte aveva favorito il recupero di un altro spicchio di memoria di uomini e cose del mondo lontano, consentendo a Ignazio di vincere, ancora una volta, non tanto la guerra o una battaglia quanto una scaramuccia contro l’oblio, che profonde crepe scava al sentiero del nulla.
Fino a quando Mnemosine – sposa di Zeus, madre delle Muse, soprattutto dea della Memoria – dall’alto del suo lontanissimo regno, concederà a Ignazio il suo conforto, donandogli uno stilo e un rotolo di carta su cui scrivere, per continuare a fare bottino di schegge di luce del tempo che fu?
Antonio Cammarana