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Il tempo e la memoria: mappe e documenti sulla presenza dei tedeschi ad Acate nel 1943

Il tempo e la memoria Cammarana
Il territorio di Acate – Antica Biscari è un grande quaderno che fornisce sempre ulteriori appunti allo storico per una nuova e più dettagliata ricostruzione di fatti episodi avvenimenti del biennio 1943/1945.
Su questa strada difficile e impervia, ma senza dubbio affascinante, come ogni ambito di ricerca che richieda abnegazione ed impegno costante, si sono posti nel tempo diversi ricercatori.
Tra costoro Ignazio Albani, Domenico Anfora, Andrea Augello, Fabrizio Carloni, Gianfranco Ciriacono, Salvatore Cultraro, Emanuele Ferrera, Gaetano Masaracchio, Piero Occhipinti, Stefano Pepi, lo Scrivente.
Stefano Pepi, tenace ricercatore di materiale storico, è venuto ultimamente in possesso di una cartina dell’istituto Geografico Militare, riferentesi ad una parte del territorio compreso tra Acate e Vittoria, Comiso e Caltagirone, che ha attirato subito la mia attenzione e per la quale abbiamo chiesto la consulenza dell’ingegnere Fedele Ferlante.
Nella mappa, che ritengo molto particolareggiata, perché si possono
leggere gli appezzamenti di terreno, le strade comunali provinciali statali, le case rurali cadenti e in buone condizioni, le trazzere regie e
repubblicane, è messo in rilievo, in prossimità dello stradale Acate-Vittoria, un dettaglio che ha richiamato alla memoria un cruento episodio di guerra, di cui mi ero occupato quest’anno e che è stato attenzionato a livello mondiale, che ha attirato parecchi ricercatori e che ha come titolo “Quel caseggiato rurale di contrada Casazza testimone della storia che abbiamo visto con i nostri occhi”.

Hauptman Paulus
Oltre alla mappa, Stefano Pepi è entrato in possesso di un altro documento di notevole rilevanza e validità storica riguardante il Battaglione di Ricognizione della Panzer Division Hermann Goering (Aufklarungs-Abteilung 1 Hermann Goering) agli ordini del Capitano Hauptmann Paulus, dislocato a Caltagirone presso il Comando di Divisione e che, nei giorni precedenti il 10 luglio 1943, si trovava tra Acate e Vittoria con campo nelle contrade Baucino e Casazza.
Si tratta, forse, della formazione militare tedesca che, nella notte tra il 9 e il 10 luglio, ingaggiò un duro scontro a fuoco con i paracadutisti americani, il cui aereo C47 Dakota, colpito da “Fire Friend” (Fuoco Amico) precipitò in prossimità del caseggiato rurale di contrada Casazza a ridosso dello stradale Acate-Vittoria?
Il documento trovato da Stefano Pepi lo fa supporre, perché in contrada Casazza non c’erano altri militari tedeschi oltre quelli del Comandante Hauptmann Paulus, che alcuni giorni prima dello sbarco Anglo-Americano avevano pattugliato il territorio compreso tra Acate-Vittoria. L’essere in possesso della cartina dell’Istituto Geografico Militare e del documento relativo alla presenza del Battaglione di Ricognizione della Panzer Division Hermann Goering (Aufklarungs-Abteilung 1 Hermann Goering) e del capitello 504HG>179 U.S. situato all’interno del caseggiato rurale di contrada Casazza induce Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e me a recarci ancora una volta sul posto e a visitare il Pilone o Edicola Votiva eretto a San Patrizio a memoria dei caduti americani.
Il caldo è opprimente non essendoci alito alcuno di vento, è un caldo afoso umido appiccicaticcio che incolla i pur leggeri indumenti al nostro corpo. La vegetazione è molto diversa da come la lasciammo-verde e vegeta, anche se spontanea e selvaggia – quest’inverno. L’erba è alta e secca e di colore giallo oro, punte di spighe di falso grano s’infilano nei nostri calzini, provocando fastidiose anche se inoffensive punture. Eppure Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e io camminiamo ancora in questo luogo, calpestando fantasmi di orme di scarponi militari tedeschi e americani, che, oltre settant’anni addietro, aderirono pesantemente al terreno, mentre verdi lucertole si rosolano al sole indifferenti della nostra presenza, interminabili fila di laboriose formiche con granelli in bocca spariscono in piccolissimi concavi avvallamenti per riapparire più avanti su lievi rialzi del terreno e il nero coleottero stercorario – quasi facendosi beffe di noi – lascia una sottile riga e una minuscola pallottola di cacca tra l’erba secca e la terra riarsa.
Le acque della spiaggia di Macconi, che già intravedemmo quest’inverno e visibili come nel lontano 1943, mandano sempre un continuo stupefacente scintillìo; Monte Calvo ci osserva senza farci arrivare granate americane di Cannoni e di Carri Armati; l’Etna ha la cima questa volta sgombra di neve; la Chiesa della Matrice di Acate continua come da sempre, a fare le corna al visitatore e all’osservatore inducendolo a un bonario sorriso; l’aeroporto di Comiso, risorto a nuova vita ha il nome di Pio La Torre, ritenuto dai politici non solo moderno democratico progressista, ma anche più aderente e consono alla realtà della Sicilia del 2000, lasciando nell’oblio quello del Generale Vincenzo Magliocco della Brigata Aerea della Regia Aeronautica.

Mappa Acate contrada Cassazza
Ma a noi, che siamo ritornati in questo luogo con il semplice desiderio di visitarlo una volta ancora, ci avvince e ci avvinghia sempre più il silenzio, un silenzio metafisico che lo circonda e lo avvolge, proprio di una terra che sembra avere fatto dell’assenza di ogni rumore il proprio emblema, molto simile in questo ai cimiteri di campagna della vecchia Inghilterra. Come non ricordare “Elegy written in a Country Churchyard ” (Elegia scritta in un cimitero di campagna) del preromantico Thomas Gray? Il tempo logora la memoria nei confronti dei militari morti in guerra, mentre l’alterna fortuna delle idee politiche induce spesso gli uomini a oltraggiarne o a dimenticarne le tombe e i nomi. Ma, di fronte a questo Pilone o Edicola Votiva a San Patrizio, noi sentiamo il dovere civile e il bisogno umano di inchinarci ancora una volta, così come ci inchiniamo di fronte ai nostri morti italiani e ai morti dei nostri alleati tedeschi del secondo conflitto mondiale. Senza per questo condannare coloro che, per opposte ragioni e forti di una libera scelta ideologica, dissero si al Comitato di Liberazione Nazionale o alla Repubblica Sociale Italiana e che combatterono e morirono per le idee in cui credevano allo scopo di risollevare il nome dell’Italia dall’abisso in cui era caduto.
Dopo il tradimento del re?
Non tocca a noi stabilire se quello del re fu un tradimento o un atto
necessario, ma allo storico, quando diversi lustri saranno trascorsi dal già lontano 8 settembre 1943, e lo storico vaglierà il fatto dopo averlo sfrondato dalle passioni politiche che spingono ad esacerbate valutazioni e a verità, spesso assurde.
Visibilmente commossi, lasciamo sia l’Edicola votiva sia il caseggiato rurale, raggiungiamo lo stradale Acate-Vittoria proprio in un momento in cui il nostro animo non è turbato dal passaggio di macchine o da altri rumori. E passo dopo passo ci facciamo assorbire dalla vita quotidiana della comunità del mondo nuovo nato dalla seconda guerra mondiale.

Antonio Cammarana

Quel caseggiato di Contrada Casazza testimone della storia che vedemmo con i nostri occhi

Antonio Cammarana

Verso la fine degli Anni Cinquanta, ogni mattina, assieme a tanti ragazzi e ragazze della mia età, con l’autobus dell’AST, che da Acate ci portava a Vittoria, raggiungevo la Scuola Media Statale “Vittoria Colonna”.

Contrada Casazza Acate 1
Appena un chilometro oltre il centro abitato, in contrada Casazza, alla mia destra, vedevo una trazzera che recava a un complesso di case rurali, di cui si scorgevano le tegole dei tetti e parte delle mura. Proprio all’inizio del sentiero di campagna c’era una struttura a forma di piramide d’imprecisato materiale, che poggiava su quattro grossi tubi di ferro e che aveva al suo vertice una croce.

Contrada Casazza Acate 2
Per otto anni di seguito, tranne le domeniche e i giorni di vacanza, vidi, due volte al giorno, questa scheletrica ed enigmatica costruzione, immaginando spesso che fosse un posto di guardia per consentire o vietare l’accesso al casale; per otto anni di seguito, almeno una o due volte la settimana, sentii la voce del bigliettaio dell’autobus dire al collega conduttore di fermare il mezzo per fare salire o scendere diverse persone che andavano o venivano da lì. Dopo le Medie e le Superiori non salii più sul mezzo pubblico per Vittoria, gli studi universitari mi portarono a Catania, l’insegnamento mi catapultò in Piemonte a Chieri, a Beinasco, a Carmagnola, a Torino. Non dimenticai però la piramide con la croce, né la trazzera che portava al caseggiato di campagna, che rividi quando, tornato nella mia terra di Sicilia, in macchina da Acate-antica Biscari mi recavo a Vittoria. Nel giugno del 2013, l’amico Stefano Pepi mi fece dono del volume “Obiettivo Biscari” sullo sbarco anglo americano in Sicilia del luglio 1943, scritto assieme a Domenico Anfora e con la Prefazione di Giovanni Iacono per la Casa Editrice Mursia di Milano. L’introduzione al testo, firmata dai due Autori, mi fece tornare indietro nel tempo ai miei undici anni, allorquando in autobus passavo in Contrada Casazza e vedevo la piramide e la grande costruzione. Dopo la presentazione del libro alla Società Operaia di Mutuo Soccorso “Giuseppe Garibaldi” del mio Paese, chiesi a Stefano di poter visitare il terreno e il fabbricato, chiamato Case Paternò di Contrada Casazza, da qualche anno acquistati dai suoi genitori. Fu in un pomeriggio di febbraio del 2014 che Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e io raggiungemmo il posto. Così vidi da vicino quello che ritengo un monumento alla memoria eretto sia dai proprietari e dai contadini del luogo, sia dai soldati americani che da Vittoria (la prima città della Sicilia che si arrese agli Alleati) avanzavano verso Acate:
quattro grossi pali di ferro ormai arrugginiti – uno di essi corroso in tutta la parte mediana – sorreggono la cupola a piramide al cui vertice sta una croce ricavata da tubi di alluminio con otto buchi, quattro in orizzontale e quattro in verticale. Dalle testimonianze rilasciate dai proprietari a Stefano e ai suoi familiari attraverso i fori era avvitato alla croce un simbolo religioso celtico irlandese. Sotto la tettoia a forma piramidale, per molti anni, ci fu una statua di pietra raffigurante San Patrizio, protettore dell’Irlanda e degli americani di origine irlandese. Alla base dei quattro lati di questa copertura ci sono dei perni, che sorreggevano strutture contenenti vasi per fiori. E questo spiega, secondo quanto mi dice Stefano, il pellegrinaggio di persone del posto che, per anni, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, continuarono a portare mazzi di fiori. Siamo nel territorio di Vittoria, ci troviamo ad appena un chilometro sia da Acate, sia da Monte Calvo. I militari tedeschi, che erano stanziati nel caseggiato, nell’imminenza dell’invasione anglo-americana della Sicilia, avevano in dotazione una batteria antiaerea, oltre all’armamento tipo di un avamposto germanico in zona di guerra. Il luogo era stato scelto in base alla sua posizione strategica, che consentiva ai tedeschi di controllare Acate, Comiso e il suo aeroporto, il litorale di Macconi fino alla foce del fiume Dirillo e Monte Calvo.
Ci avviciniamo Pepi, Anfora, Iacono ed io al rustico, che copre un’area di tremila metri quadrati e che si presenta subito, ora che vi siamo vicini, come un antico casale fortificato a forma di ferro di cavallo con palazzo padronale o pars dominica, corte interna con pozzo per l’acqua, palmenti per la raccolta delle uve e delle olive da trasformare in loco in vino e in olio, magazzini per il frumento e altri prodotti della terra, stalle per gli animali, laboratori con i principali mestieri per produrre strumenti di lavoro e manufatti della vita quotidiana. Insomma una curtis vera e propria, non medioevale, ma moderna, con sistema economico chiuso e aperto, in cui si produceva ciò che era necessario per il consumo interno e per gli scambi con l’esterno.

Contrada Casazza Acate 3
La corte interna o baglio ha una struttura quadrangolare, in parte saccheggiata da ignoti visitatori diurni e notturni. Immediatamente alla sinistra della scala di pietra, che permette di accedere alla parte padronale, troviamo un capitello con la scritta 1765 VO I> 46. In un altro capitello non molto distante dal primo, un’altra scritta <<904 HG> 179° U.S.>>.

Contrada Casazza Acate 4
Nel 1943, il 10 luglio, un aereo americano con paracadutisti, di cui molti feriti, colpito dal fuoco proveniente da navi amiche, precipitò a cento metri dall’ingresso del caseggiato. Come se fossero caduti vicino ad una fossa di leoni o ad una tana di lupi, i paracadutisti diventarono bersaglio della batteria tedesca. I soldati e gli ufficiali dello zio Sam, che riuscirono ad uscire dal velivolo, risposero al fuoco nemico, ingaggiando una dura battaglia, anche se alla fine morirono tutti.

Contrada Casazza Acate 5
Ancora oggi è possibile trovare rottami dell’aereo, bossoli di mitragliatrici e di K98 MAUSER tedeschi, nonché bossoli e proiettili di Garand americani.
Tutto quello che era in dotazione dei militari statunitensi: cassette, stoffe di paracadute, taniche, borracce, mitra, fucili, baionette, bombe a mano vennero trafugati o trasformati dai contadini e dai proprietari del luogo in oggetti d’uso personale casalingo e campagnolo.
Pepi, Anfora, Iacono ed io lasciamo lo spazio chiuso, ancora una volta
facciamo il giro di tutto il complesso di Case Paternò. Comiso è davanti a noi con il suo aeroporto; alla sua sinistra vedo, in tutta la sua magnificenza e possanza, il vulcano dell’Etna imbiancato di candida neve; Acate con la sua Chiesa Madre e i suoi campanili, che da sempre fanno corna beffarde al visitatore, ed il cinquecentesco Castello dei Principi di Biscari; ed ancora le acque luccicanti della marina di Macconi e l’altura di Monte Calvo, da dove gli americani, che provenivano da Vittoria, cannoneggiarono per l’ultima volta Acate, ormai abbandonata dalle truppe italo-tedesche in ritirata; e da cui si mossero, per salvare il paese dal fuoco statunitense, “il profugo d’Africa, cav. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese; il calzolaio Giovanni Gallo; il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma”.
Esterna ed indipendente dalla costruzione si presenta a noi ciò che rimane della secentesca chiesetta, che doveva avere una estensione,
stando ai modesti ruderi che osserviamo, di sessanta metri quadrati e quindi capace di ospitare per le funzioni religiose la popolazione contadina e padronale del luogo.
Dalle ricerche effettuate e dalle testimonianze avute dalla famiglia Pepi la chiesetta fu abbattuta dalle batterie americane, che bombardavano Acate da Monte Calvo.
Il sole comincia a calare, nel dolce declino i suoi raggi non offendono più gli occhi, mentre permettono di osservare, in tutto il suo verde brillante di questo inverno piovosissimo, l’erba di tutta la campagna circostante. Pepi, Anfora e Iacono sono visibilmente soddisfatti di avermi fatto visitare questo luogo, che fu teatro di un cruento e sanguinoso episodio di guerra, e in cui scaturì un’accesa lite verbale tra Anfora e Pepi, che si trasformò in una solida amicizia e aprì la strada alla stesura di un testo che apporta nuovi dati e notizie sullo sbarco anglo-americano in Sicilia.
Da parte mia sono lieto di avere trascorso un pomeriggio, che ha arricchito il mio bagaglio culturale con la conoscenza di un luogo storico della Seconda Guerra Mondiale, con gli autori di “Obiettivo Biscari”. Ho calpestato un pezzo di terra da tempo figlia del silenzio, che custodisce il lontano tuono dei cannoni americani e il crepitio delle mitragliatrici tedesche, un luogo dove ancora ai fortunati visitatori potrà succedere di trovare qua e là bossoli schegge e arrugginiti rimasugli di rottami di armi e di mezzi, che furono portatori di dolore di morte di desolazione.
Mi fermo ancora a guardare la piramide e la croce con gli otto buchi, gli amici mi dicono che dovrebbero essere interessate le autorità militari statunitensi per il recupero e il restauro dell’edicola storica innalzata a San Patrizio. Io abbasso la testa, in segno di assenso, poi a parole riesco a proferire che sì, questa è la cosa più giusta da fare. L’esercito degli Stati Uniti sa onorare tutti i propri soldati in qualunque parte della terra essi combattono e muoiono. Noi, forse, lo sapremo fare in un futuro vicino o lontano, quando, sopra i morti delle nostre guerre, non sarà più buttato il fango delle ideologie politiche.

Prof. Antonio Cammarana
Via Duca D’Aosta n. 58
Tel. 0932874261 – C.A.P. 97011 Acate (RG)

“Obiettivo Biscari”. Il saggio di Anfora e Pepi presentato da Antonio Cammarana alla Società Operaia

Obiettivo Biscari
Sabato 30 novembre, nei locali dello storico sodalizio, “Società Operaia di Mutuo Soccorso ” di Acate, fondato nel 1869, ho avuto l’onore di presentare il saggio storico “Obiettivo Biscari: 9-14 luglio 1943. Dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504” di Domenico Anfora e Stefano Pepi, pubblicato dalla Casa Editrice Mursia di Milano, “che sta compiendo un lavoro egregio di analisi dei fatti realmente accaduti durante l’invasione alleata”;
segnalato e recensito da diverse testate giornalistiche da “La Sicilia” al “Giornale di Sicilia”, da “Libero” al “Giornale”, da “Il Fatto Quotidiano” a “La Repubblica” a “Rinascita”, a “Il Secolo d’Italia”, al “The Times” di Londra.
In qualità di coordinatore della serata ho evidenziato che il volume ha meriti e punti di forza: ci accompagna a rivivere i luoghi, i volti, le vicende drammatiche, gli scontri cruenti; mette in risalto che, tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943, “si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo di Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate”; ci offre una documentazione storica attendibile che – oltre alle uccisioni di prigionieri di guerra e di civili che, già conosciamo da precedenti pubblicazioni – fa luce sulla strage dei Carabinieri compiuta dagli Americani a Passo di Piazza e sulla strage di militari italiani e tedeschi compiuta sempre dagli Americani all’Aeroporto di Comiso; si fregia, inoltre, dell’autorevole Prefazione del Tenente Colonnello, Dottor Giovanni Iacono, il quale definisce il libro “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia del luglio-agosto 1943”.
Ho dato, poi, la parola al Presidente Saverio Caruso, che si è detto orgoglioso di ospitare un evento di così notevole interesse culturale.
“L’invasione del territorio di Acate da parte delle truppe americane – ha riferito – l’ho vissuta da testimone oculare, anche se all’epoca avevo circa 9 anni. Mi ricordo delle bombe sganciate nel paese e delle violente esplosioni che provocarono diversi morti e feriti, generando grande panico tra la popolazione. Sono più che convinto che il bombardamento fu effettuato per la presenza di due camion tedeschi fermi nella strada principale del paese, tra via XX Settembre e via Roma”.
A seguire l’intervento del Sindaco Franco Raffo, il quale si è complimentato con gli autori del libro per aver fornito ancora un frammento di storia e di vita della nostra cittadina nelle atrocità della guerra.
Il Tenente Colonnello Giovanni Iacono, poi, si è soffermato sugli scontri che hanno avuto luogo “nelle vicinanze del bivio di Biscari, lungo la Statale 115, in località Biazzo; e nella “mossa a tenaglia” di “due battaglioni verso Biscari, uno da Sud, cioè dalla strada che va verso la SS 115, ed un altro da Est, proveniente da Vittoria e che si trovava già attestata nella zona di Monte Calvo”, da dove “bombardava il paese credendolo presidiato dalle truppe tedesche, che in realtà si ritiravano verso Caltagirone”, dopo avere lasciato “tra le retroguardie un carro armato Tigre, che muoveva lungo Corso Indipendenza e che sparava sia verso gli Americani provenienti dalla SS 115, sia verso quelli provenienti da Vittoria. Forse a salvare Biscari dai bombardamenti americani furono alcuni coraggiosi cittadini che andarono incontro al Gen. Mc Lain, che stava comandando l’attacco, il sig. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese, il calzolaio Giovanni Gallo ed il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma. Questi, a rischio della propria vita, s’incamminarono verso la chianata a Serra, che corrisponde dove c’è la rotonda andando per Vittoria, venendo fermati dagli Americani ai quali comunicarono che dentro il paese erano rimasti solo pochissimi tedeschi e che erano in fase di ritirata. Li pregarono di smettere quindi il bombardamento del paese. Non fidandosi gli Americani li fecero salire su una Jeep e li tennero come ostaggi, mentre le compagnie si avviavano verso il centro abitato. Vi furono delle scaramucce contro gli ultimi soldati tedeschi che si erano attardati nella ritirata, ma alle venti Biscari era in mano americana”.
Tra i presenti anche il signor Cesare Pompilio, che ha rievocato, con viva commozione, con la sua testimonianza diretta di ragazzino di 9 anni, episodi di guerra che offrivano uno spettacolo allucinante, di morti orrendamente mutilati tra grida e lamenti dei sopravvissuti. Purtroppo non mancò, tra tanto disastro, chi cercò di approfittare della situazione con indegni atti di sciacallaggio, tra le rovine delle case bombardate o abbandonate, alla ricerca di denaro e di effetti personali.  Il volume, ha affermato Stefano Pepi nel suo intervento, è nato per caso, quando davanti al casale di sua proprietà, nel territorio di Vittoria, in località Casazza, vede aggirarsi Domenico Anfora attratto da alcuni particolari (presenza di varie feritoie rivolte verso la strada) e da una iscrizione su “un capitello di una delle entrate di destra sul quale vi era inciso 179° U.S.”, che gli destano curiosità.
Dopo un primo malinteso e lo scambio di reciproci chiarimenti, tra i due nasce una forte sinergia. E’ l’inizio di una grande amicizia e di una valida collaborazione tra la consolidata esperienza di serio ricercatore storico vizzinese e ” l’uomo entusiasta col fiuto dell’investigatore”. Un unico denominatore comune: la passione per la ricerca storica sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e l’amore per la verità. Da qui i motivi che hanno spinto Domenico Anfora e Stefano Pepi a cimentarsi in un “lavoro di ricerca, d’indagine, di studio sulla battaglia di Biscari, che insanguinò il territorio compreso tra Acate, Niscemi, Ponte Dirillo, Vittoria”. Una impresa entusiasmante e interessante – aggiunge Domenico Anfora nel suo intervento – che nasce “sul campo”, ispezionando luoghi, consultando archivi, interagendo con le cronache del tempo, ricercando documenti inediti, intervistando testimoni. Indimenticabile l’incontro con Riccardo Mangano, pronipote del Podestà di Acate, Giuseppe Mangano, che insieme al figlio Valerio e al fratello Tenente Medico Ernesto, fu vittima di una strage perpetrata dagli Americani a Vittoria.

Antonio Cammarana

I Crimini di guerra americani nei primi giorni dell’operazione Husky. Compendio.

Compendio
Tanti, forti e profondi dovettero essere i sentimenti provati dal nemico invasore, da coloro che difesero la loro terra, e dalla popolazione civile che assistette agli scontri e che ne patì le conseguenze nei primi sei giorni dell’Operazione Husky (“cane da slitta” il nome in codice) nel settore delle truppe del generale George J. Patton (Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Acate, Scoglitti, Vittoria).
Innanzitutto la tensione e la paura generate nell’animo di coloro che vissero l’attesa di entrare in azione in luoghi che non conoscevano o che conoscevano per averli visti soltanto in mappe approssimative e imprecise, fossero essi paracadutisti, soldati di fanteria, di artiglieria o di cavalleria corazzata.
Nel libro di Domenico Anfora e Stefano Pepi, “Obiettivo Biscari, 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’aeroporto 504” (Milano, Mursia, 2013), che il Tenente Colonnello dott. Giovanni Iacono considera “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia” (p.7), leggiamo le parole che descrivono lo stato d’animo dei paracadutisti americani in attesa di lanciarsi nel buio: “Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero” (Idem, p.43).
E possiamo soltanto immaginare con quanto stress si conviva scendendo dall’alto con il paracadute, per la prima volta in una zona di guerra, vedendo i compagni che stanno vicino colpiti in aria prima di prendere terra o catturati subito dopo aver preso contatto con il terreno o rompersi gli arti o la schiena nell’atterraggio o rimanere per lungo tempo isolati o in piccoli gruppi in un luogo sconosciuto, lontani dall’obiettivo e con il solo pensiero di congiungersi agli altri prima di incappare in una pattuglia nemica.
Sentimenti non dissimili a quelli dei paracadutisti vivono una parte degli uomini della “Thunderbirds”, la 45a Divisione di fanteria americana, che si trova su una nave in avvicinamento alla costa tra Scoglitti e Capo Sgalambro, in attesa di ricevere l’ordine di sbarcare: “I giovani e inesperti soldati dello zio Sam, quasi tutti coscritti, nell’oscurità inciampavano e imprecavano, mentre tastoni cercavano il corrimano e dondolavano abbrancati alle scale a corda sui fianchi delle navi beccheggianti nel mare mosso. Alcuni caddero mentre tentavano di scendere, infortunandosi seriamente. Un fante annegò”. (p. 66).
E ancora al largo di Capo Sgalambro e di Punta Braccetto, “sui mezzi da sbarco che giravano a cerchio a causa del mare grosso” (p.69) e “con la paura che oscurava la ragione e per la nausea” (Ibidem), le stesse emozioni vivevano i fanti che “vomitavano, pregavano e imprecavano, e vomitavano ancora” (Ibidem). E solo quando cominciò “il fuoco di sbarramento della flotta americana verso la costa siciliana, illuminandola al ritmo delle cannonate”(Ibidem), quei
soldati dimenticarono la nausea e “guardarono quelle scie di fuoco e quelle esplosioni con gli occhi sgranati e le dita nelle orecchie”(Ibidem).
Dal momento dello sbarco cominciarono a susseguirsi le esecuzioni sommarie di prigionieri militari disarmati e di civili inermi.
Le truppe americane della Cp “I” del 3°/505° , venute a contatto con il nemico, non avevano motivi validi per fucilare, o meglio per assassinare, i carabinieri che difendevano Passo di Piazza e che si arresero, dopo gli interventi dei cannoni navali della Marina Statunitense.
“In località Passo di Piazza, a Nord del Biviere e a Ovest del Ponte sul Dirillo, a presidio della linea ferroviaria, c’era un posto fisso dei Carabinieri forte di 15 uomini al comando del Vicebrigadiere Carmelo Pancucci. Il carabiniere Antonio Cianci, ventunenne di Stornara (FG), vedendo in avvicinamento un gruppo di soldati sconosciuti, fece fuoco abbattendone uno. Iniziò un conflitto a fuoco tra i carabinieri, armati di soli moschetti e asserragliati nella casa rurale, utilizzata come Caserma, e i paracadutisti americani che la circondavano.
L’intervento dei cannoni navali americani convinse il vicebrigadiere ad alzare bandiera bianca. Nel frattempo erano morti quattro carabinieri. I dodici, che si erano arresi, furono messi al muro e sottoposti a raffiche di mitra, che provocarono la morte di altri quattro militari italiani e il ferimento di uno. I sopravvissuti, tra i quali Pancucci e Cianci furono deportati in Algeria. Gli aggressori appartenevano probabilmente alla Cp “I”, lanciatasi sulla vicina contrada di Piano Lupo”(p.46).
Lo stress emotivo, il non potere dormire, la collera incontrollata causata dalla morte in combattimento dei compagni del Combact Team, una notte intera trascorsa dentro una trincea; l’assunzione di benzedrina “sia per attenuare i malori causati dalla terribile tempesta che aveva investito il Canale di Sicilia, sia per animare i soldati al loro battesimo del fuoco” (p.191); le parole del Generale Patton che incitano a non fare prigionieri, anzi a uccidere ( ” Kill, kill and kill some more”: “Uccidi, uccidi e uccidi ancora”) quelli che egli chiamava, con parole rimaste tristemente famose nella storia dell’esercito statunitense, “Beach of songs”, “Figli di puttana”, sono alla base di un altro aberrante crimine di guerra compiuto dal sergente Horace West . Il “sottoufficiale ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie, perché fossero interrogati dal Servizio Informazioni S-2 del reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati.
Spiegando che avrebbe ucciso quei figli di puttana, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani” (Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, p. 255).
Ancora un altro crimine di guerra si consumava nello stesso giorno dagli “uomini della Cp “C” agli ordini del Capitano Jhon T. Compton”, che, “incontrando una dura resistenza nel settore Est dell’Aeroporto di Biscari, adirati per le perdite subite, fucilarono i 36 militari italiani catturati” (Anfora-Pepi, op. cit., p.185).
Il capitano Compton, “imputato di 36 omicidi, non cercò scuse”, dicendo, “davanti alla Corte Marziale”, che aveva obbedito all’ordine di Patton: “Giusto o sbagliato, l’ordine di un Generale a tre stelle, con una esperienza di combattimento, mi basta. Io l’ho eseguito alla lettera” (Idem, p.191).
“Ripugnante” è l’aggettivo di cui Carlo D’Este si serve per condannare ciò che definisce come “il primo incidente” dell’Operazione Husky, in realtà si tratta di due aberranti crimini di guerra compiuti da un ufficiale ( il Capitano Jhon T. Compton) e da un sottoufficiale (il sergente Horace West) del 180° reggimento della 45aDivisione di fanteria Thunderbird dell’Esercito degli Stati Uniti.
Questi crimini di guerra furono incoraggiati anche dalla “voce”, che circolava tra le truppe di terra della 45° Divisione, quando, nell’area compresa tra Acate, Santo Pietro e Piano Stella, si rinvennero a decine i corpi senza vita dei paracadutisti americani che si trovavano a bordo dei 23 Dakota abbattuti per errore dal fuoco amico della flotta.
La “voce” diceva che “gli italiani avessero aperto il fuoco sui parà prima di toccare terra, violando la Convenzione di Ginevra, o che addirittura avessero giustiziato anche quelli che si erano arresi. Queste voci, del tutto infondate, incoraggiarono comportamenti vessatori o addirittura criminali contro i prigionieri italiani” (Andrea Augello, Uccidi gli Italiani, Milano, Mursia, 2009, p.108 ).
Se si è riusciti a fare luce su questi avvenimenti lo si deve anche al prof. Vincenzo Castaldi di Varese, Docente di Storia e Filosofia, il quale “il 29 gennaio del lontano 1995” inviò “un esposto al Procuratore della Repubblica di Ragusa (copia del quale invierà successivamente anche al giornalista della Gazzetta del Sud Salvatore Cultraro per conoscenza), denunciando un eccidio avvenuto il 14 luglio del 1943 nei pressi dell’Aeroporto di Biscari” (Salvatore Cultraro, I ricercatori ignorati. I meriti del prof. Vincenzo Castaldi, Archivio AcateWeb, 15-11-2013 ).
In verità i crimini di guerra compiuti dal Capitano Compton e dal Sergente West non saranno i soli crimini dei primi sei giorni dell’Operazione Husky.
Mentre rileggo il volume ” Obiettivo Biscari” continua a colpirmi la ricchezza di particolari con cui gli autori hanno ricostruito la fine di Giuseppe Mangano, insegnante elementare e podestà di Acate, di suo figlio Valerio, e la scomparsa di Ernesto Mangano, Tenente del Regio Esercito Italiano, a Vittoria, cittadina della Provincia di Ragusa. E non tanto per una ideale consonanza giovanile di fede politica con l’ideologia del fascismo, che l’inesorabile falce del tempo ha reciso anche con il contributo non indifferente dei figli della Fiamma Tricolore che lasciarono la scomoda “casa (ghibellina) del padre” per la comoda “casa ( guelfa) del potere”; quanto piuttosto per le vili e non documentate parole raccattate in chissà quale sentina da coloro che usurpano il nome di storici.
Fucilato Giuseppe Mangano, assassinato con un colpo di baionetta alla guancia Valerio Mangano, scomparso senza lasciare traccia Ernesto Mangano, “emerge così un’altra storia dei ragazzi Yankee in divisa, da un lato alta e nobile, scritta da combattenti tenaci, generosi e pronti al sacrificio, dall’altra inaccettabile, imperscrutabile, fatta di eccidi di prigionieri inermi, di civili innocenti, di presunti e reali fascisti” (Andrea Augello, op. cit., p.13).
Un’altra storia che è ancora la storia dell’eccidio di Piano Stella del 13 luglio 1943, ricostruita da Gianfranco Ciriacono ne “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”( Coop. C.D.B. Ragusa 2003).
E’ ancora la storia del massacro dell’Aeroporto di Comiso. Secondo il giornalista inglese Alexander Clifford, testimone dell’episodio, sessanta soldati italiani e cinquanta soldati tedeschi, “catturati in prima linea, furono fatti scendere dai camion e massacrati con una mitragliatrice” (Anfora- Pepi, op. cit., p.147); secondo la versione americana, “un agente della Military Police della 45a, caricando su un camion un gruppo di prigionieri tedeschi per trasferirli dal fronte al campo di prigionia nelle retrovie, scoprì che nei camion in dotazione avrebbe potuto trasportare solo 200 dei 235 prigionieri nemici. Così egli allineò i 35 prigionieri in eccesso e li falciò con il suo mitra” ( Ibidem).
Se ciò che abbiamo scritto non è stato un inutile esercizio storico-linguistico, prende corpo la tesi che i giorni dal 9 al 14 luglio 1943 rimarranno nella memoria perché rappresentano “l’unico momento in cui gli Italo-Tedeschi rischiarono di vincere, contro ogni logica ed ogni possibile pronostico, come qualche rara volta accade sui campi di battaglia di ogni tempo” (Andrea Augello, op. cit., p.10); e perché vi vengono consumati diversi crimini di guerra, come conseguenza di un deragliamento della ragione, da parte di parecchi fanti americani della 45aDivisione, i quali considerarono il nemico vinto e arresosi non come prigioniero di guerra, ma come “figlio di puttana” da ammazzare, o per una personale e distorta interpretazione del discorso del Generale George J. Patton pronunciato alle truppe prima dello sbarco in Sicilia, o per una criminale ed efferata vendetta per la morte dei compagni caduti negli scontri a fuoco con i soldati italiani e tedeschi.

Antonio Cammarana

“Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”. Inaugurata un’importante mostra ad Acate

Letizia Zaffarana
Inaugurata dal vice sindaco Letizia Zaffarana, alla presenza di un discreto numero di appassionati d’arte, nel castello dei Principi di Biscari, la mostra intitolata “Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”, inserita nel programma del “Settembre a Biscari 2013”. Al tavolo dei lavori Giovanni Bosco di Vittoria, titolare della galleria polifunzionale “Edoné”, che ha sottolineato che la mostra ha come obiettivo di promuovere l’arte nel territorio siciliano e favorire così l’approccio all’arte pittorica, l’assessore alla Cultura, Luigi Denaro, promotore dell’interessante iniziativa culturale, che ha ringraziato i pittori, i relatori e il comitato organizzatore e spiegato le tappe che hanno reso possibile l’evento, lo storico Antonio Cammarana, la scrittrice Maria Teresa Carrubba (pubblichiamo le due relazioni), il critico d’arte Alfredo Campo, che ha presentato i pittori e si è soffermato sul significato delle opere, il vice sindaco Letizia Zaffarana e il presidente del Consiglio comunale, Isaura Amatucci, che hanno messo in evidenza che la straordinaria mostra dà spessore alla cultura e pregio ad Acate.

innaugurazione mostra arte acate
Il prof. Giovanni Lantino ha coordinato i lavori. Il percorso artistico della mostra comprende il Futurismo, il Pixeling, l’Arte Figurativa, la Transavaguardia, l’Arte Informale, l’Arte Povera e lo Spazialismo con le opere di Lucio Fontana, Piero Dorazio, Antonio Corpora, Mino Maccaniri, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Alberto Sughi, Remo Vespignani, Giuseppe Migneco, Renato Guttuso, Michelangelo Pistoletto, Emilio Vedova, Giulio Turcato, Mauro Reggiani, Mario Schifano, Franco Angeli, Ugo Nespolo, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Mimmo Germanà, Tano Festa, Felice Casorati, Fausto Pirandello, Antonio Bueno, Fiorenzo Tomea, Antonio Nunziante, Fabrizio Clerici, Jean Calogero, Giulio D’Anna, Pippo Rizzo, Fortunato Depero, Marianna Sallemi, Federica Meli e degli artisti iblei Arturo Barbante, Vincenzo Napolitano, Maurizio Cugnata, Francesco Iacono e Gino Baglieri. Le numerose opere della mostra potranno essere visitate dal 4 al 13 ottobre, dalle ore 18 alle ore 22 nei giorni feriali, e dalle ore 10 alle 12,30 e dalle 16 alle 22 nel giorno di domenica.

Redazione (Acateweb)

Il Novecento: un itinerario storico, di Antonio Cammarana

Non è semplice indicare sinteticamente i tratti dominanti ed essenziali del Novecento, anche perché parliamo di una Storia non completamente sistematizzata e ancora soggetta ad una pluralità di contrastanti interpretazioni.
Alcuni storici definiscono il Novecento “secolo delle ideologie”, altri “secolo delle avanguardie”, altri ancora “secolo della tecnologia”. Definizioni che, assieme alle altre, confluiscono, secondo me, nella rappresentazione del Novecento come Apogeo e Simbolo della Modernità.
Antonio Cammarana innaugurazione mostra arte acate
Il Novecento si apre con “un segnale telegrafico, la lettera S, tre punti nell’Alfabeto Morse”, che, per la prima volta, ad opera dello scienziato italiano Guglielmo Marconi, attraversa l’Oceano, “viaggiando nell’etere, e non lungo un cavo sottomarino, alla velocità
di 300.000 chilometri al secondo, cioè alla velocità della luce”, gettando le basi per la grande rivoluzione delle comunicazioni transatlantiche a beneficio dell’Umanità, tanto da meritarsi nel 1909 il Premio Nobel per la Fisica.
Si afferma il fascino della velocità, di cui è simbolo l’automobile, che è venuto ad appagare il bisogno di emozione, di avventura, di rischio, secondo il proclama del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, apparso a Parigi nel 1909 nel quotidiano “Le Figaro”.
Dal nuovo mondo arriva una grande forma artistica d’Avanguardia, il Cinema, considerato “la decima Musa, che, a differenza delle sue sorelle della mitologia greca, non abita sul monte Elicona, ma in un regno tutto suo, chiamato Hollywood”, la cui figura più grande è quella di Charlie Chaplin, che ci darà due pellicole di rara bellezza: “Tempi moderni” nel 1936 e il “Grande Dittatore” nel 1940.
Nel 1914 e nel 1939 l’Europa precipita, per ben due volte, nella catastrofe della guerra, che vede prima una Germania guglielmina e imperiale, poi una Germania hitleriana e nazionalsocialista impegnata in quello che è stato chiamato “l’Assalto al potere mondiale”( Fritz Fischer,1961).
Sia nella prima come nella seconda guerra mondiale, l’umanità è stata vicinissima alla distruzione universale, ha visto i campi di sterminio e l’Olocausto, la figura più tragica inquietante e criminale del Novecento, portando milioni di esseri umani ad affermare: “Ad Auschwitz Dio non c’era!”.
Ad Auschwitz Dio non c’era, ma non c’era nemmeno ad Hiroshima e a Nagashaki, soprattutto non c’era nella mente di quei fisici nucleari americani che, a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico, guidati dal fisico Robert Hoppenheimer, direttore dei laboratori atomici, fecero la bomba atomica e la consegnarono al Presidente americano Truman per scopi militari.
Leonardo Sciascia, nel saggio “La scomparsa di Majorana”, afferma che si comportarono da uomini liberi, e furono uomini liberi, gli scienziati tedeschi che con Werner Heisemberg non fecero l’atomica, perché ne intravidero gli effetti catastrofici per l’umanità e
ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia. E, secondo me, furono filosofi, filosofi della vita, anziché essere scienziati, scienziati della morte.
Si comportarono da schiavi, e furono schiavi, gli scienziati americani che proposero l’atomica, vi lavorarono, la consegnarono al Presidente Truman, che ordinò di farla cadere in due città del Giappone accuratamente e scientificamente scelte per poterne valutare gli effetti distruttivi: “che l’obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse un’alta percentuale di edifici in legno; che non avesse, fino a quel momento, subito bombardamenti, in modo da potere accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l’unico e il definitivo”.
Nel 1941, Renato Guttuso, pittore dal forte impegno sociale, dipinge “Crocifissione”, in cui rappresenta, non solo la crocifissione di Cristo, ma la crocifissione di tutta l’umanità, resa martire dalla guerra.
L'”Osservatore romano” e il Vaticano considerano Renato Guttuso “pictor diabolicus” (pittore diabolico, pittore del diavolo) e condannano il dipinto giudicandolo eretico soprattutto per la presenza della figura della Maddalena nuda e lo propongono per la messa all’Indice dei Libri e delle Opere proibite dal Tribunale del Sant’Uffizio.
Nel 1945 l’umanità si salva dalla rovina della guerra, ma assiste impotente, alla divisione del mondo nei due blocchi contrapposti del Capitalismo e del Comunismo e al sorgere di quella realtà, che è stata chiamata “la guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica: uno “status” di forte competizione e confronto tra le più grandi nazioni del mondo che si scontrano, si attaccano, si danneggiano con ogni mezzo, politico economico propagandistico, escluso il mezzo militare.
Nel 1947 l’India, la “perla dell’Impero britannico”, ottiene l’Indipendenza dal dominio coloniale inglese, sotto la guida spirituale di Gandhi, chiamato il Mahatma, la “grande anima”, che propugna i grandi temi della non violenza e del pacifismo.
A Gandhi si ispira Martin Luther King, il “redentore dalla faccia nera”, per l’affermazione della parità dei diritti civili tra Bianchi e Neri negli Stati Uniti. Indimenticabile il suo discorso più famoso pronunciato nel 1963 al Lincoln Memorial di Washington, che incomincia con le parole ” I have a dream” -“Io ho un sogno: che un giorno questa Nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Nel 1964 gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace.
A Ghandi si ispira anche Nelson Mandela, uno dei più prestigiosi uomini politici africani, guadagnandosi, nel 1993, il Premio Nobel per la Pace per aver posto fine all’odioso regime dell’Apartheid, nel Sudafrica.
“Nel 1955 si ebbe la conferma che un nuovo mondo – il Terzo Mondo – era nato e si poneva come Terza Grande Forza accanto al blocco statunitense e al blocco sovietico.
I rappresentanti di 29 Paesi africani e asiatici, che avevano ottenuto l’Indipendenza, si incontrarono a Bandung, in Indonesia, e proclamarono la fine di ogni forma di colonialismo, dell’arretratezza e del sottosviluppo, soprattutto il rifiuto di schierarsi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica. Nascevano in questo modo, i Paesi Non Allineati”.
Nel 1963 muore Giovanni XXIII, “il Papa buono”, il Papa che, con il suo linguaggio semplice e diretto, si era rivolto a tutti gli uomini di buona volontà e aveva affermato la centralità dell’uomo nel mondo: “Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e doveri che sono universali, inviolabili, ineliminabili”.
Nella seconda metà del Novecento vive combatte e muore Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come Che Guevara, o semplicemente il Che. Diventato per milioni di intellettuali di studenti di lavoratori il Mito per eccellenza della difesa dei poveri e degli oppressi, della rivoluzione e della guerriglia del XX secolo, davanti al quale si inchinano tutti coloro che hanno vissuto, di persona e non a parole, la” Battaglia delle idee”, nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nelle Università, in tutti i luoghi di lavoro.
Nel 1968 dai Campus delle Università americane arriva in Europa e in Italia il “Vento della contestazione”, che sfocia nell’occupazione delle facoltà universitarie da parte degli studenti in lotta, che rifiutano di subire le varie forme del potere come dominio di pochi privilegiati, concetto sintetizzato dal “Time” con queste parole:” Il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente”.
Tutti i partiti politici – dalla Destra alla Sinistra – furono colti di sorpresa, nessun partito politico – dalla Destra alla Sinistra – capì che cosa spingeva un’intera generazione di studenti universitari e degli istituti superiori a mettere a rischio il loro futuro e la loro incolumità personale.
Mentre continua, negli Anni Ottanta, la contrapposizione tra le due Superpotenze si afferma, in ogni campo, “anche in quelli che nulla hanno a che fare con le Arti”, il Postmoderno, non tanto come nuovo movimento quanto come negazione di tutti i principi, i valori, i giudizi, che erano stati propri del Moderno, avendo in comune uno  Scetticismo Essenziale, un Relativismo Radicale, un Nichilismo Assoluto, che erano stati portati avanti soprattutto da Federico Nietzsche e da Martin Heidegger.
Alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, alla riunificazione della Germania, alla dissoluzione del Comunismo in Unione Sovietica e nei Paesi del Patto di Varsavia, alla fine della “guerra fredda” hanno contribuito in modo determinante Michail Gorbaciov e Papa Giovanni Paolo II. L’uno propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka (rinnovamento) e alla Glasnost (trasparenza); l’altro, gigante della Chiesa Cattolica, con la sua instancabile azione politica e diplomatica, in campo internazionale. Questi grandi avvenimenti di fine secolo hanno dato agli Stati Uniti, per almeno un decennio, la coscienza di potere essere, nel campo militare, “l’Impero planetario”; primato che, sul piano economico, è stato messo in discussione dall’irruzione, nei mercati internazionali, della Cina e dell’India, che contano la metà della popolazione mondiale. Anche se la scienza e la tecnica ci hanno fatto guardare la terra dalla luna, si continua a non accorgersi delle sofferenze fisiche e spirituali di tanta parte dell’umanità, che, per tutta la sua lunga vita, ha cercato di alleviare quella che è considerata l’EMBLEMA del secolo che si è chiuso: Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace nel 1979, che, dall’alto della sua grandezza, ha voluto considerarsi sempre una PICCOLA MATITA nelle mani di Dio.
Sembra ieri, invece sono passati anni, decenni dall’inizio del Novecento, secolo di guerre, di distruzioni, di olocausti, come pure d’invenzioni, di conquiste, di risorse; secolo che si è chiuso lasciando aperti tanti problemi, che rimarranno sempre irrisolti se si continuerà ad ignorare che tutto nel mondo parte dall’uomo, fa riferimento all’uomo, ritorna all’uomo in modo positivo o negativo, nel bene o nel male.

Antonio Cammarana

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IL XX SECOLO nell’arte, di Maria Teresa Carrubba

Prima di ammirare i dipinti di questo meraviglioso percorso artistico ritengo sia necessario e indispensabile conoscere tutto ciò a cui i loro autori si sono ispirati. A volte ci si chiede cosa si può trovare di interessante nelle opere d’arte di questo magnifico itinerario oltre al bello artistico?
Vi si trova la storia, la vita, i sentimenti dell’uomo, dell’artista che vive il suo tempo. Vi si trova la giusta dose di ironia intelligente che sorregge il tema dei quadri, capace di congelare in una sola immagine LE NOTIZIE DELLE QUOTIDIANITA’.
Si raccontano attraverso la pittura le tappe fondamentali del cammino dell’umanità in un secolo, il novecento, fatto di contraddizioni e perciò complesso e tanto articolato.

teresa carrubba innaugurazione mostra arte acate
Il sogno dell’Italia unita, la pace rincorsa da una grande schiera di uomini travagliati da una crisi profonda, fu un miraggio per chi visse in un secolo segnato da due guerre, e avvertì dentro di se forte il peso di una società ingiusta e crudele.
La condizione dell’individuo sviluppò una coscienza che dava l’amara constatazione dell’assurdità della vita e dell’impossibilità di cambiarla. Spesso non vi si riusciva a trovare la connessione di una vita sociale, della comunicazione con gli altri; contemporaneamente si avvertiva l’impossibilità di sfuggire alle convenzioni, in quanto fuori da esse la vita diventava impossibile.
L’uomo comune, ma anche e ancor più l’intellettuale e l’artista, si sentiva assalito da sentimenti contrastanti, a volte avvertiva l’instabilità della propria condizione, a volte alimentava la voglia di esaltare quotidianamente la vita, a volte diffondeva nella coscienza il sapore amaro della solitudine e dell’alienazione. Essi, tutti quanti, subivano fatalmente la realtà, ma ognuno da quella realtà traeva fuori una sua verità, del tutto soggettiva e quindi diversa da quella degli altri. Molti, come i futuristi, maturarono una coscienza ribelle, un’esasperazione dell’animo, provocate da un forte senso di delusione che serpeggiò e dilagò rapidamente.
Ci si sentiva proiettati in situazioni nelle quali la linea di confine tra il sacrificio e la crudeltà era sottilissima. Posto ogni momento davanti alla necessità di dover scegliere se subire la morte o procurarla, l’uomo avvertì l’incertezza del proprio destino. La coscienza appariva insofferente a lasciarsi sottomettere da qualsiasi schema razionale, appariva angosciata e rifiutava la vita così come gli si prospettava. Per venire fuori da questo stato di cose, alcuni decisero di prendere in mano la propria sorte, di vivere fuori dalla banalità della vita comune, come gli esistenzialisti. Si andò spesso alla ricerca di una propria verità da trovare in se stesso, legata alla propria vita in particolare. Vi furono anche quelli che rivendicavano una vita fortemente individualista, rifugiandosi magari nella natura che offriva quiete e tranquillità, ritenuta l’unica capace di rasserenare gli animi angosciati.
Tra l’artista e la natura si stabiliva talvolta un’intesa perfetta, perché dal contatto e dall’osservazione di essa si traeva l’ispirazione per rappresentarla. Ma l’arte del novecento non consisteva in questo o quel tema, non aveva un motivo dominante come quella del secolo precedente, essa stava in una contrapposizione di temi, in un mobile gioco in cui la caratteristica era l’instabilità di ogni singola unità e la somma di tanti motivi. Accanto alla perpetua ricerca di un riparo riaffiorava sempre l’aspirazione all’eterna evasione da esso, al desiderio di spazi limitati e quieti si contrapponeva l’improvvisa nostalgia di vasti e diversi orizzonti, alla ricerca del tempo perduto faceva da contrasto l’infanzia ritrovata, il desiderio di una vita reale. In questa mobilissima concatenazione di contrasti, dal rifugio all’evasione, è da cercare forse l’autenticità di quest’arte fatta appunto da un continuo passaggio di temi. La maggior parte degli artisti nascevano da una crisi che portava a vedere il mondo senza significato, la loro arte manifestava una negazione estrema, un’ estrema decisione che riempiva di significato metafisico i particolari più semplici e comuni come la rappresentazione di povere creature o grandi simboli o immagini scarne e immediate, colte isolatamente. All’arte del XX° secolo si chiedeva tutto: ragioni di vita e di fede, dimenticanza e consolazione, l’orgoglio di stare solo e la forza di amare, la fiducia nell’azione al di là di ogni limite, lasciando aperto all’ispirazione tutto il sentire dell’animo.
Contro la vanità del mondo restava l’esaltazione dell’arte, ed ecco che lo scacco, il limite umano veniva esteso a tutto fuorché all’arte. Sosteneva D’Annunzio “Il mondo non è del vano conquistatore, ma dell’artefice solitario, il mondo non fu creato se non per essere convertito dall’arte in forme sovrane e immortali”. E poi accanto alla storia che faceva il suo corso camminavano gli uomini del secondo novecento, arrivarono gli anni sessanta carichi di ventate rivoluzionarie, del pluralismo, delle grandi svolte. Gli anni degli intrecci tra gli Stati Uniti, i poteri locali. Il tempo triste e buio della guerra era ormai lontano, ma c’era ancora chi nascondeva i suoi pensieri, i suoi segreti nel dipingere. La luce delle opere create, ancora il loro valore artistico rivelava la realtà interiore vissuta e rivissuta intensamente, ancora si metteva in luce nei volti dipinti la realtà di tutti i giorni, ma anche la dolcezza del temperamento.
L’artista della seconda metà del secolo in questione era antieroe per eccellenza, sempre povero, ma carico di ideali. In questo contesto incontriamo i “quattro grandi siciliani”, Guttuso, Fiume, Mignego e Caruso. Gli italiani vanno dove li porta il loro realismo, e i siciliani tanto di più, unici nella loro insularità psicologica prima che geografica. La loro arte è fatta di volti scomposti, patetici, sereni. Alcuni sono riflessivi, altri concettuali, immagini esilaranti, in cui vi si può leggere anche la follia quasi ordinaria della vita nei manicomi.
Sono tesori, un vero e proprio viaggio nel mondo e nella società di cui sono il frutto, sono esigenza di tutte le persone che vivono in un tessuto sociale come il nostro appunto che fa parte di un popolo la cui storia è così antica, così bella, ma anche dolorosa. L’arte dunque come medicina che curi l’apatia dell’uomo vittima della politica e dei fatti storici. Un’arte che fa riflettere e lascia in bocca un retrogusto persistente, il retrogusto della verità.

Maria Teresa Carrubba

Festa al Circolo Agricolo per i 110 anni della fondazione: la relazione del prof. Antonio Cammarana

Festa circolo Agricolo Acate 110 anni
I centodieci anni di vita del Circolo Agricolo sono stati festeggiati solennnemente sabato sera nella sede di via XX Settembre, presenti Autorità, soci ed amici. Ha condotto i lavori il prof. Emanuele Ferrera, il quale, dopo la sua sobria e pregnante introduzione, ha invitato il sindaco Giovanni Caruso a porgere le felicitazioni dell’Amministrazione Comunale. Subito dopo ha preso la parola il dottor. Giovanni Frasca, segretario del sodalizio, con un efficace intervento nel quale ha citato anche un noto brano di Lucio Battisti, imperniato sull’amore per la campagna. A seguire il prof. Antonio Cammarana ha illustrato la sua dotta e meticolosa ricerca storico-sociale sul Circolo (che pubblichiamo più giù). Dopo i ringraziamenti commossi del presidente Giovanni Raffo a tutto lo staff di Eventi Acatesi, (Pietro Mezzasalma per la mostra fotografica e l’organizzazione della manifestazione, Franco Sallemi per il video, Emanuele Ferrera per il coordinamento), sono intervenuti il presidente del Circolo di Conversazione, prof. Giovanni Pignato (che ha donato al collega Raffo una stampa del Castello) e don Girolamo Bongiorno, figlio di uno dei fondatori. Prima dell’aperitivo Pietro Mezzasalma ha recitato una poesia sul tema sull’agricoltura, scritta da Vito Gatto.
Ecco il testo ella relazione del prof. Antonio Cammarana.

Redazione (Acateweb-EventiAcatesi)

Momenti storici e azione sociale del Circolo Agricolo di Acate

Antonio Cammarana2
Quando assieme all’amico maestro Pietro Mezzasalma – questo “assieme” sta diventando, sempre più, un luogo dell’intelligenza produttiva di cultura storica – entrai nel Circolo Agricolo, ho visto tante persone sedute ai tavoli della sala grande dell’Associazione, persone che discutevano, che giocavano a carte e che amichevolmente risposero al nostro saluto. Per un istante mi estraniai, tornai indietro nel tempo e con la memoria mi trovai nella sala del mio Circolo, il Circolo di Conversazione di Acate – antica Biscari, quando un tempo era piena di sodali: c’era chi leggeva il quotidiano e il settimanale inseriti nelle stecche; chi giocava a poker, a scala quaranta, a stop ballerino; chi stava seduto sul sofà; mentre tutti quanti erano osservati da Edmondo Leone, in piedi al centro della sala, con l’immancabile sigaro, che pendeva fumante dalla sua bocca. Immagini usuali, che popolano ancora di ricordi la mia mente e di altri soci del sodalizio più carico di storia di Acate.
Un colpetto alla spalla da parte di Pietro mi richiamò alla realtà e, subito dopo, lui, il presidente del Circolo Agricolo Giovanni Raffo ed io ci trovammo seduti nella stanzetta , che, secondo gli Antichi Atti, fu di proprietà del comune di Biscari. Con la sua esperienza pratica, Pietro prese accordi per la Celebrazione del 110° Anniversario dalla fondazione del Circolo ed io mi trovai con diversi quaderni in mano e un impegno da mantenere.
Tornato a casa fu tutt’uno sfogliare e leggere le pagine di quel materiale prezioso, che mi avrebbe permesso di ricostruire e di raccontare eventi, momenti di vita, le tappe più significative di questa storica realtà locale fin dalla sua nascita: un lampo nella notte oscura della comunità di Biscari, che si affacciava al Millenovecento, luce su un mondo sopra cui c’erano solo tenebre.
Per completezza e rigore di metodo affiancai, alla documentazione affidatami, la consultazione dell’Archivio storico della Biblioteca civica ” Enzo Maganuco ” e precisamente le delibere del Consiglio Comunale, che vanno dal 15-8-1902 al 10-11-1902, Registro n.8, delibere antecedenti all’Atto di nascita del Sodalizio, consultazione favorita dalla gentilissima Direttrice Graziella Sansone e dalle sue valide collaboratrici. Dalla lettura del materiale storico ebbi ben chiara la situazione storica politica ed economica del periodo in esame.
Il territorio di Biscari, per l’ingrossarsi delle acque del fiume Dirillo ( o Dorillo o Dorilli o Agate), a causa delle fitte e violente piogge, andava soggetto a ricorrenti straripamenti e inondazioni, provocando notevoli danni a uomini animali campagne e case della vallata omonima.
Una terribile alluvione (che non riguardò soltanto Biscari, ma tutta la Contea di Modica e la città di Modica in particolare) fu quella del 25 e 26 settembre del 1902, tanto che fu oggetto di discussione nella seduta del Consiglio comunale del giorno 8 ottobre dello stesso anno, in cui si misero in evidenza “i sacrifici personali e l’indefesso lavoro dell’ Ill/ mo Signor Sindaco Digeronimo”, il quale “non curando né fatiche, né strapazzi e tralasciando le sue molteplici occupazioni” percorse “l’intera vallata del Dirillo per constatare DE VISU ( di persona) i gravi danni cagionati dalla mai vista piena del nostro fiume Agate ( Dirillo )”, conseguente a “fatale e funesto nubifragio”, che “gettò nel lastrico tante povere famiglie di coloni e di piccoli possidenti i quali così, in poche ore, videro perduti gli stenti e i sudori”.
Il disastro ambientale e agricolo spinse quei lavoratori della terra e i piccoli proprietari a riunirsi a discutere e ad associarsi per trovare – se non la soluzione definitiva ai loro malanni – almeno un PUNTO DI FORZA, che potesse servire come difesa dei frutti del loro lavoro. In questo modo, dopo varie discussioni e accordi preliminari, “l’anno millenovecentotre, il giorno 15 marzo, alle ore 18, nel locale sociale sito in via Venti Settembre, previo avviso pubblicato nella sede, previo segnale datone con l’esposizione della bandiera alla porta”, si riunì l’Assemblea generale per “deliberare l’approvazione dello Statuto fondamentale del Circolo”.
Il Direttore, Gallo Biagio farmacista, al quale fu “affidata la redazione dello Statuto “, lesse “dal primo articolo fino all’ultimo”.
L’Assemblea, dopo” qualche lieve obiezione ” da parte di alcuni soci, applaudì l’operato del signor Direttore “e” a voti unanimi “approvò lo Statuto, che diventò l’Atto di Nascita del Circolo della Borghesia, vidimandolo con un timbro di forma ovale a inchiostro color viola, riproducente la denominazione del Sodalizio, che presentava, al suo interno, “una stretta di mano”, simbolo di solidarietà sociale, che si esprime nella forma e nella sostanza della collaborazione, della condivisione e dell’assistenza reale e concreta nella sventura, nella sofferenza e nel dolore.
Primo presidente fu Manusia Mariano, primo segretario Modica Gaetano, primo direttore Gallo Biagio.
Dal giorno della Fondazione l’Attività del Circolo della Borghesia si volse alla difesa e all’assistenza dei soci e del loro lavoro, sia quando si verificarono disastrose calamità naturali che distrussero i raccolti; sia quando si protestò contro l’antico metodo di ricavare fondi a disposizione del Consiglio Comunale, tassando maggiormente alcuni e alleggerendo del peso fiscale altri; sia quando si fecero voti ai signori dei latifondi inondati dalle acque del Dirillo.
Il Circolo della Borghesia, nel primo dopoguerra, non rimase estraneo alle lotte contadine, ora con la costituzione – il 2 maggio 1920 – della Cooperativa agraria guidata da un comitato provvisorio formato da cinque soci (Spada Giuseppe fu Biagio, Di Modica Giuseppe fu Giambattista, Falconieri Giovanni di Gaetano, Catania Vincenzo di Biagio, Cicero Antonino fu Salvatore) , ora con l’adesione “all’agitazione agricola del paese” nominando due membri (Spada Giuseppe fu Biagio e Di Modica Giuseppe fu Giambattista) su invito, ricevuto mediante lettera, del Circolo Socialista locale, che avrebbe portato all’occupazione delle terre incolte dei latifondi.
La lotta tra opposte fazioni politiche, violenta a Biscari, come in tutto il territorio nazionale, raggiunse il suo culmine con l’assassinio di Vincenzo Ferlante.
La tornata elettorale del 7 novembre 1920 aveva dato la maggioranza, nel consiglio comunale, alla sinistra socialista, al cui interno la quasi totalità degli aderenti si riconosceva nella linea riformista di Filippo Turati, di Claudio Treves e di Giacomo Matteotti, mentre una sparuta minoranza seguiva le idee massimaliste di Amedeo Bordiga e di Antonio Gramsci. In seguito alla scissione di Livorno, che determinò la nascita del partito comunista d’Italia, a Biscari i socialisti massimalisti aderirono alla linea rivoluzionaria comunista, alimentando gli scontri con gli uomini di opposte ideologie. I comunisti di Biscari, in una riunione segreta, votarono il crimine politico: l’assassinio di Vincenzo Ferlante, da tutti conosciuto come Vincinzinu Pirricchiu.
Il Ferlante aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale. La trincea, gli attacchi, i contrattacchi, i morti, i feriti ne avevano fatto un soldato coraggioso, un Ardito, una ” camicia nera ” ( le camicie nere non furono un’invenzione di Benito Mussolini: le camicie nere, con il pugnale fra i denti e con il tascapane pieno di bombe a mano, furono la punta di diamante del Regio Esercito Italiano, dopo la sconfitta di Caporetto: l’evoluzione dei Reparti d’Assalto, nel senso elitario dell’estremo coraggio e dell’azione suicida, contro il nemico invasore austro-ungarico e tedesco: i FEGATACCI, di cui mi parlò a lungo, a Milano, nel triennio 1974- 1975-1976, il capitano comandante Gianni Cordara, Presidente dell’A.N.A.I., l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia).
La mattina del 19 Maggio il “Pirricchiu”, mentre scriveva frasi ingiuriose sulla facciata del Comune di Biscari contro il socialcomunismo, fu colpito alle spalle da un colpo di fucile sparato da Giuseppe Stracquadaini, assistito, nell’azione criminosa, da Giovanni Bongiorno e da Gaetano Stornello, entrambi carrettieri.
Il fallimento della sempre conclamata rivoluzione rossa, “il fare in Italia come in Russia”, mai portata a termine ( o, almeno tentata), la presa del potere da parte di Benito Mussolini ( ottobre 1922) e il suo passaggio per la via XX Settembre a Biscari (aprile 1924), l’emergere della figura dell’Avv. Vincenzo Bellomo, tra i fascisti del paese, convinsero i soci del Circolo della Borghesia a costituirsi in Sindacato Nazionale Fascista dei Massari il 24 maggio del 1925. Con questa denominazione il Circolo visse tutti gli altri anni del fascismo al potere, fin quando venne chiuso in seguito allo sbarco anglo-americano in Sicilia nel luglio del 1943.
Il giorno 8 del mese di agosto del 1943 i signori Pinnavaria Giuseppe fu Carmelo, Carrubba Vincenzo di Francesco ed Amorelli Giuseppe di Benedetto riaprirono il Circolo, prospettando a tutti gli intervenuti alla riunione “la futura possibilità di vita sotto gli americani”, i quali promettevano “la libertà”. Giuseppe Pinnavaria fu eletto Presidente.
La vita del Circolo ebbe, però, breve durata, perché il sodalizio fu chiuso per ordine del Governo Militare Alleato, in seguito ad attriti con le autorità locali da parte dell’allora Presidente. Ottenute le dimissioni, il Commissario prefettizio di Acate, rag. Vincenzo Paladino, fece opera di intercessione per la riapertura del Circolo presso il Comando Militare Alleato, che la consentì con la seguente motivazione da parte del C.A.O.A. HARRIS CAPT.
“Non ho nessun desiderio di intromettermi nei piaceri e fini del popolo di Acate, ma è stato portato alla mia conoscenza che certa condotta disordinata ha avuto luogo nei locali del Circolo della Società degli Agricoltori.
Su richiesta del Sindaco Paladino ho proceduto alla riapertura della Società e spero che si andrà incontro a queste mie concessioni con la buona condotta da parte dei membri. Sono sicuro che non sorgeranno più nel futuro motivi di lamentela”.
Il secondo dopoguerra vide i soci del Circolo e i suoi dirigenti impegnati nell’opera di rimpatrio dei prigionieri di guerra con il contributo di mille lire; negli accomodamenti con il Dazio; nella richiesta di revisione dell’imposta di famiglia da determinarsi “con spirito di imparzialità e reale valutazione dei redditi imponibili dei cittadini”; nella protesta contro la tassazione dei prodotti agricoli di “maggiore produzione, cioè, il vino, le mandorle, le carrube, le arance, i carciofi”, fatta a scapito di tantissime famiglie di agricoltori e con l’esclusione di seicento altre, appellandosi al senso di giustizia e di imparzialità del Prefetto della Provincia; nella difesa vigile ed energica dei diritti degli iscritti al Circolo.
L’indagine che ho condotto è stata interessantissima e ha permesso di ampliare la nostra conoscenza, che è soprattutto quella degli uomini e delle cose in senso lato, del territorio di Acate-antica Biscari.
Nel corso della ricerca ho rivisto i fantasmi di uomini bruciati dal sole e dal gelo, che nella campagna nacquero, nella campagna faticarono, con la campagna nel cuore chiusero gli occhi per sempre; ho rivisto i fantasmi di donne, che la fatica e il dolore resero vecchie anzitempo, donne che questi uomini – i loro uomini – attesero, ogni giorno, con ansia e trepidazione, prima di accendere, nell’annerita tannura, con paglia canne e frasche quel fuoco – spesso più fumo che fuoco – sopra cui mettere una pentola per bollire l’acqua con cui cuocere una minestra serale di fave o di lenticchie o di ceci o di fagioli, che rinfrancasse una giornata di lavoro duro nei campi dall’alba al tramonto del sole; soprattutto ho rivisto il fantasma di un mondo circoscritto a poche case (dove sovente vivevano assieme e senza vergogna persone e animali), a poche strade (spesso sterrate e poco praticabili soprattutto nei mesi autunnali e invernali): era il mondo del popolo della campagna che la sera si raccoglieva attorno a una magra tavola di cibo umile ma sano; e in questo raccogliersi e in questo esserci – raccogliersi ed esserci, che era proprio di tutta la famiglia non di rado patriarcale – si perpetuava quell’antico rito religioso diventato quotidiano vangelo della vita, che cominciava dalla distribuzione del pane, che il capofamiglia spezzava con le proprie mani e dava a partire dal più piccolo per arrivare, se bastava, a lui, che era il più grande.

Festa Circolo Agricolo pubblico

Alla Comunità del Circolo Agricolo di Acate, erede dell’orgoglio e della dignità di antiche generazioni di gabellotti e di piccoli proprietari, che spesso furono derubati dei frutti del proprio lavoro sia dalle calamità naturali, sia dalla rapacità di insulsi signori del latifondo, sia dall’infame politica di parte, vada il mio ringraziamento per essere stato onorato a presiedere, assieme agli altri autorevoli relatori, alla Celebrazione del 110° anno dalla fondazione del Circolo della Borghesia di Biscari, avvenuta il 15 Marzo del 1903.

Antonio Cammarana

Una benemerenza, una protesta, una supplica. Dal registro del circolo agricolo, già della borghesia

Circolo Agricolo Acate
Degna di attenzione ritengo l’ammissione, come Socio Benemerito, al Circolo della Borghesia di Biscari, del Dottor Masaracchio Antonino.
L’Assemblea dei soci del 22 Gennaio del 1905 – presidente il signor Manusia Mariano, segretario il signor Modica Gaetano, direttore il signor Gallo Biagio –su domanda inoltrata dal signor Bellomo Biagio e firmata da dieci soci– con voto unanime, ammette “il Distinto Egregio Dottor Masaracchio Antonino a Socio Benemerito” con la seguente motivazione: “Perché veramente possiede quei doni di Benemerenza, specialmente nel soccorrere i poveri non solo con la professione, ma anche con denaro e con quale gentilezza di conforto nei confronti di tutti; veramente degna persona della famiglia Nobile che egli appartiene ed in Biscari si è distinto per morale, per virtù e per meriti”.
Uno dei punti sul quale l’Assemblea del Circolo della Borghesia di Biscari è chiamata a pronunciarsi il primo gennaio del 1906 è la protesta contro l’aumento della tassa sul Bestiame, presa dalla Giunta Municipale di Biscari il giorno 29 Dicembre 1905.
La Giunta per tagliare il dazio “sulla minuta vendita del vino” non aveva trovato di meglio che “eccedere al massimo la tassa sul bestiame”, favorendo alcuni e danneggiando altri.
Il socio Modica Gaetano, chiesta e ottenuta la parola, fece osservare all’Assemblea dei soci che “il territorio di Biscari –nelle contrade Canalotti Fondo Niglio, Chiappa, Dirillo, Peniata, Macchione, Baudarello, Litteri, Piano di Giunco e Biddini- è posseduto per la massima parte da proprietari di Vittoria”, i quali non pagano la suddetta tassa (tassa che, quindi, viene meno al Comune di Biscari); che “la eccedenza al massimo di questa tassa” danneggia l’interesse dei soli agricoltori di Biscari; che un “accertamento rigoroso” è giusto, senza “fare bassamane” nel calcolarla.
Particolarmente interessante, per i contenuti dolorosi che vi sono presentati e per il pathos morale che li anima, è il verbale della seduta che i soci del Circolo della Borghesia di Biscari tengono il 22 gennaio del 1906.
Il presidente Garraffa Vincenzo fa presente all’Assemblea che, da diversi anni, gli agricoltori della Valle del Dirillo hanno il raccolto devastato dalla piena del fiume omonimo e che pure nell’anno appena cominciato –il 1906 – la furia delle acque non ha risparmiato i prodotti della terra. Gli agricoltori si trovano, quindi, nell’impossibilità “per manco (mancanza) di mezzi finanziari” di continuare la coltivazione dei terreni rovinati dal Dirillo, di cui sono “gabellotti”.
Ascoltata la relazione del presidente – e possiamo capire anche con quale stato d’animo demoralizzato di padri di famiglia, che un destino avverso da anni, priva del frutto delle campagne – l’Assemblea del Circolo della Borghesia all’unanimità ” fa voti ” al Principe di Mazzarino e agli Eredi del Principe Mirto affinché si degnino di attenuare la miseria incombente, che grava su questa benemerita classe di agricoltori, che coltiva i terreni di proprietà delle loro Signorie, accordando a essi “un abbuono in fitti” proporzionale ai danni ricevuti.
In quel “fa voti” a me pare di ravvisare da un lato la “sacralità” dei potenti e lontani signori, che detenevano il possesso della terra; dall’altro l’umiltà, ma anche la dignità degli agricoltori feriti da eventi naturali più grandi di loro e contro cui nulla si poteva.
Ancora cinquant’anni dopo, nel tempo in cui – ragazzino di sette nove undici anni – lavoravo nella sala da barba di mio zio Giovanni Carrubba, al numero 119 di Corso Indipendenza, quanti discorsi sconsolati e tristi ascoltai sulle terre sui raccolti sulle calamità naturali (‘u jelu, i rannili, ‘u sciroccu) e sulle piene distruttive e ricorrenti (calau ‘a china) del fiume Dirillo da parte di coloro che entravano nella sala per “fare barba e capelli”!
Eppure le facce di quegli uomini, per quanto mi consentono la mia memoria di oggi e la mia capacità di comprensione di allora, così tanto provati dalla sventura, sempre più mi pare di ricordarle (Mnemosine, dea della memoria, ancora mi assiste) come appartenenti ad un diverso consorzio umano e civile: anche segnati dalla sofferenza e dal dolore quegli uomini si dimostrarono forti nella temperie e solidali nella sventura, perché credevano in una vita migliore, sostenuti, forse, da una diversa fede, ma certamente confortati dalla ragionevole speranza di una più equa condizione economica futura.

Antonio Cammarana

“Punti fermi” alle origini del circolo agricolo Acatese di Acate-antica Biscari

Circolo agricolo Acate antica Biscari
Continuando a leggere i registri forniti dal presidente Giovanni Raffo, veniamo a conoscenza dei seguenti punti fermi alle origini del Circolo Agricolo:
– La tassa di ammissione al sodalizio, all’atto della fondazione denominato Circolo della Borghesia di Biscari, era di lire sei, mentre ogni socio regolarmente iscritto pagava la tassa mensile di centesimi settantacinque;
– Le riunioni del Consiglio di rappresentanza del Circolo e l’Assemblea generale dei soci in seduta plenaria si tenevano entrambi nel locale sociale di via XX Settembre:
quelle del Consiglio di rappresentanza “Previa lettera” d’invito a tutti i componenti; l’Assemblea generale “Previo avviso” pubblicato nella sede del sodalizio e “Previo segnale” dell’esposizione della bandiera alla porta;
– Quindici soci, estratti a sorte dall’elenco generale, quando si verificava il decesso di un iscritto, dovevano assistere ai funerali con l’obbligo di rimanere in chiesa e, al termine della funzione religiosa, di accompagnare il feretro al cimitero;
– Lo Statuto fondamentale del circolo fu redatto dal signor Direttore Gallo Biagio, letto dallo stesso in Assemblea, e approvato – con lievi obiezioni fatte da qualche socio – “a voti unanimi” e con somma soddisfazione da tutti i presenti, che applaudirono, alla fine, l’operato del signor Direttore;
– il 12 Aprile 1903, per la prima volta, dal Presidente Manusia Mariano venne chiesta all’Assemblea dei soci l’autorizzazione per l’acquisto del locale sociale e per il censimento (in vista dell’acquisto futuro) della stanzetta attigua, che, all’epoca, era abitata dal signor Maganuco Rocco. Il rilievo di questi punti fermi permette, secondo me, una doverosa riflessione:
– Torna ad onore del sodalizio l’osservanza scrupolosa delle regole da parte dell’Assemblea, del Consiglio e del singolo socio; il rispetto profondo dei morti iscritti al Circolo; la soddisfazione generale con cui venne salutata l’approvazione dello Statuto sociale; l’orgoglio legittimo di potere frequentare una sede, di cui i soci stessi fossero i proprietari reali.

Antonio Cammarana

Era la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive

Via Duca D'Aosta - AcateQuando alle sue orecchie arrivarono soltanto miagolii di gatti e abbaiare di cani, Ignazio si alzò per fumare una sigaretta all’aperto nella strada parallela al Corso. Fuori non faceva freddo, né spirava vento.
A Ignazio il paese parve immerso dentro la profonda notte, prima che nel sonno: una notte, che l’immenso cielo scuro apparentava al vasto “mare nero”, nelle cui acque culturali aveva vissuto la lunga veglia del ghetto.
Le casette a pianterreno di fronte alla sua appartenevano alla famiglia di Ignazio e degli zii paterni da oltre un secolo e conservavano un aspetto ostinatamente storico e malinconicamente decadente.
Alla sua sinistra Ignazio osservò la casa adibita a deposito di carrube, la cui porta e la cui finestra venivano intonacate di gesso per impedire al fortissimo odore di espandersi per l’abitato circostante. Essa non conteneva più quintali di carrube come nel passato, ma ospitava decine di gatti che vi avevano fissato la loro residenza notturna, nei mesi invernali, per via di un considerevole buco mai riparato nella porta d’ingresso e che, quando la temperatura scendeva sotto lo zero, levavano al cielo prolungati lamenti. Ignazio ricordò le sere di fine estate in cui, davanti a quella casetta, si fermavano bestie e carri con sacchi pieni di carrube che, una volta vuotati, avrebbero formato un mucchio largo quanto il pianterreno che, giorno dopo giorno, copriva le pareti e, alla fine, toccava il tetto e la cui porta, dopo essere stata chiusa, era aperta nel tempo in cui i sensali giravano per il paese come avanguardia di trattativa economica dei commercianti.
Allora, non molto tempo dopo aver fissato un accordo sul prezzo e avere ricevuto la caparra, arrivavano i camion e veniva chiamato il vigile urbano che, con tanto di cappello e di divisa di uomo della legge, impediva il passaggio ad autovetture e carri lungo la strada ed era portato fuori il bilico e, per tutto il giorno, era un insaccare e un pesare carrube e la sera, quando i mezzi di trasporto carichi di prodotto andavano via, la madre e le zie, in cucina, contavano i denari di carta di ferro e di alluminio, che avrebbero permesso alle loro famiglie di guardare con fiducia i giorni a venire, ringraziando ancora la benevolenza del cielo e la grazia di Dio per non avere abbandonato le loro campagne e le loro case.
Accanto alla casetta delle carrube c’era la dispensa. Continuavano a chiamarla così perché, fino al primo governo Giolitti, aveva ospitato enormi botti di vino, in parte bevuto, in gran parte venduto. Trasformato – in seguito all’arrivo della fillossera, che aveva distrutto le viti della contrada e della contea – il vigneto in mandorleto e uliveto, soltanto una botte capace e una di più ridotte dimensioni rimasero nella dispensa, testimoni mute di un tempo e di un luogo ove Bacco aveva dimorato a lungo.
Nei mesi di luglio e di agosto l’antica dispensa diventava luogo di deposito di quintali di mandorle. Qui si fermavano, infatti, come ultima meta, a mezzogiorno e di sera, asini stracarichi di sacchi di mandorle, dopo l’abbacchiatura e la raccolta nei campi. A togliere le bucce, che ricoprivano la scorza e il frutto, lavoravano tutti quelli che, delle famiglie, rimanevano in paese: Ignazio, la madre, le zie, i cugini.
Dall’alba al tramonto prima sbucciavano le mandorle al fresco, poi le stendevano al sole come lenzuola color terra, perché il frutto dentro la crosta si asciugasse per bene e non ammuffisse, per poter essere venduto.
A intervalli di un’ora, Ignazio il cugino Rosario e il cugino Luigi, a torso nudo, il fazzoletto in testa e il tridente in mano, in tutto simili a solari Poseidoni, andavano a smuovere il prodotto affinché i raggi infuocati di Elios lo penetrassero da tutte le parti. Intanto Ignazio cantava: “Suli ca spacchi i petri da chianura, suli c’abbruci l’ossa c’a calura…”. Quando l’ardente morso del sole cominciava a far posto alla dolce ombra, che lentamente calava sui marciapiedi, delle mandorle si facevano grandi mucchi che, in capaci canestri e corbelli, si portavano nella dispensa. Ora che la madre e le zie si ritiravano in casa per cambiarsi d’abito e preparare la cena, iniziando a far bollire l’acqua nella tannura, Ignazio e i cugini spalavano il marciapiede dalle bucce, che il mattino seguente sarebbero state disperse nei campi.
E mentre si aspettava l’ultimo carico di mandorle e l’aria tutt’intorno si faceva più fresca, Ignazio spendeva il tempo a giocare con i compagni nella strada e, quando da lontano – con l’ultima lama di luce, che stava per essere sopraffatta dalle serali sfumature del grigio e del nero – vedeva il padre con i fratelli, i contadini e gli animali, che portavano gli ultimi sacchi, correva loro incontro, mandando al cielo grida di gioia: il padre lo metteva a sedere sopra il dorso peloso e sudaticcio di una bestia, compensando, in tal modo, una non lieve giornata di lavoro del suo ragazzo.
E Ignazio era felice di fare ritorno a casa sopra un asino o un cavallo per un centinaio di metri. Così passava l’estate. Tutta intera.
Ma giorni restavano ancora – prima dell’inizio dell’anno scolastico – a Ignazio e ai suoi compagni per sognare inesistenti vacanze al mare in montagna in collina in compagnia di femmine belle e di molta carne. E, poi, quando finivano i sogni, l’ultimo scampolo di solleone si trascorreva andando a caccia di verdi lucertole e di neri calabroni e di variopinti serpentelli d’acqua e di macchia.
Ed ore si vivevano all’aperto, sdraiati per terra, ora fissando l’orizzonte di un azzurro assoluto, ora ascoltando il respiro del vento e i frullii degli uccelli, ora sotto l’effetto di soporiferi oppiacei che spontanei crescevano su lunghi steli come piccoli melograni, ora rotolando come umani cilindri – davanti all’occhio indifferente dei cercatori di creta – giù per le oblique scarpate fin nell’incavo di grandi valloni, per risalire contusi e laceri lungo le nascoste serpentine percorse da antichi briganti e ladri di passo in affannosa fuga da uomini di legge e compagni d’armi.
Granchi si cercavano ancora nei punti in cui – come paesaggio di antiche leggende – diventava torrentello il letto del fiume.
Per ricevere alla fine, sulla groppa, un sacco di colpi di scopa a ogni tocco di campana di mezzogiorno, quando, simili a merdosi strapazzieri, la comparsa si faceva di fronte all’uscio di casa. Ma, allora, si era spensierati e un pezzo di pane casereccio con un coccio di zucchero era già un lauto pasto e faceva la gioia anche di quelli che, come Ignazio e i suoi familiari, nel paese, vestivano di nero. Ed erano tanti.Ignazio osservò, poi, il garage: piccolo, bastava appena per una “Topolino”.
Alla sua destra c’era un altro garage della stessa estensione del primo. I due posti macchina, nel passato, erano stati la stalla di animali che, con lavoro non sempre onesto, si erano guadagnati avena e fieno come razione quotidiana e carrube come supplemento straordinario. La stalla aveva avuto una comoda mangiatoia alta a petto d’asino, capace quanto una vasca da bagno di grande dimensione, un solaio sempre ripieno di fieno, un pavimento in terra battuta immancabilmente condito di paglia e cacata.
Decine di asini e di cavalli vi si erano succeduti, secondo il principio adottato dai padroni di comprare un asino se il cavallo acquistato in precedenza si fosse dimostrato stracco, e di non avere mai un mulo perché poteva tirare calci traditori. Non tutti i cavalli si erano dimostrati valorosi nel lavoro, spesso lasciando nei guai i loro proprietari.
Si raccontava di un cavallo di aitante aspetto un episodio che a lungo fu pretesto di ilarità generale. Si era ad ottobre inoltrato, si abbacchiavano e si raccoglievano le olive per portarle al frantoio del paese. Verso sera al cavallo era stato attaccato il carro carico di sacchi e ci si era messi sulla via del ritorno, quando si scatenò un violento temporale, che colse cavallo carro e padroni ancora sulla trazzera. L’animale piegò le ginocchia e non si mosse, nonostante la
tempesta di nerbate che gli si arrovesciava sulla groppa e rischiava di mandarlo all’altro mondo. Rivelatesi inutili anche le imprecazioni e la botta di sancu latru puorcu e assassinu, che uscivano dalle bocche dei padroni che la malaventura rendeva luciferini, si dovette spaiare il cavallo dal carro e, con l’aiuto di parecchi contadini, spingere carro e bestia fino in paese, per non lasciare marcire le olive a causa della pioggia. Ma se la roba fu salva, la reputazione del cavallo e il buon nome dei proprietari andarono in malora. Per anni, anche quando non c’era più, si continuò a parlare di un cavallo tanto fiacco che, ogni sera, dai padroni veniva portato in paese sopra il carro sotto la pioggia. Il cavallo fu messo in vendita e una mattina fu appiccicato a dei forestieri di passaggio, che, del tutto ignari della sua fama, lo portarono dalle loro parti.
Si fece festa, la sera, con il ricavato e si bevve il vino della botte piccola e si andò a letto felici di aver concluso un buon affare. Ma l’indomani mattina, alle prime luci dell’alba, quando il padre di Ignazio uscì di casa per chiamare i fratelli, si ritrovò, davanti alla stalla, il cavallo del buon affare, i compratori del giorno prima e diversi compari di rinforzo con intenzioni non pacifiche. Il cavallo, messo al tiro, si era dimostrato buon incassatore di bastonate, ma cattivo lavoratore, per cui era stato riportato ai suoi vecchi padroni che, vista la mala parata, lo ripresero per venderlo ad altri ignari offerenti.
Ora che il padre di Ignazio e anche i suoi fratelli hanno lasciato per sempre questo mondo, portandosi via un pezzo di storia della comunità – che viveva dei prodotti della terra e che il lavoro l’onestà e il rispetto della legge rese simile all’età dell’oro dell’umanità; ora che il mandorleto è morto e produttivi di miseria sono il carrubeto e l’oliveto; ora che due grigi posti macchina in cemento hanno assassinato la calda stalla dal muro sbrecciato, il vecchio solaio ricco di paglia e fieno e la mangiatoia alta a petto d’asino, rimane il ricordo della via Duca d’Aosta come la strada delle mandorle, delle carrube e delle olive.Intanto anche la luna era sparita e il buio si era fatto più fitto, e il fresco pizzicava a Ignazio le braccia e il petto.
Come alla fine di un lungo incanto, Ignazio si trovò solo in mezzo alla strada, perplesso, un po’ infreddolito.
La notte aveva favorito il recupero di un altro spicchio di memoria di uomini e cose del mondo lontano, consentendo a Ignazio di vincere, ancora una volta, non tanto la guerra o una battaglia quanto una scaramuccia contro l’oblio, che profonde crepe scava al sentiero del nulla.
Fino a quando Mnemosine – sposa di Zeus, madre delle Muse, soprattutto dea della Memoria – dall’alto del suo lontanissimo regno, concederà a Ignazio il suo conforto, donandogli uno stilo e un rotolo di carta su cui scrivere, per continuare a fare bottino di schegge di luce del tempo che fu?

Antonio Cammarana

 

Una sera

una sera del passato AcateLa sera è scesa all’improvviso, portando via dalla piazza i crocchi di contadini, che si sono fatti vivi in cerca di lavoro nel latifondo. E il calzolaio, che tiene pure scarpe per chi ne può comprare, spegne la lampada del negozio; e il giornalaio, che, all’inizio di ottobre, s’improvvisa libraio per gli alunni delle Elementari e delle Medie, chiude le imposte.
Nel Corso vedo soltanto coloro che dal vizio del fumo sono spinti verso la rivendita di “Sali e tabacchi”, che, a quest’ora, tiene aperta soltanto mezza porta. Poi non scorgo più nessuno; anche i cani – che hanno sostato a lungo davanti alla carnezzeria nella speranza di potere addentare qualche osso – a causa dell’insoddisfatta fame, gagnolando, vanno appresso all’odore di carni varie, che emana dalla pelle e dal pastrano del macellaio, che lascia la bottega e ritorna lemme lemme a casa.

Ora che il buio si fa più fitto, mia madre viene a chiudere le finestre, accende le lampade, sparisce in cucina. Ciò facendo, mia madre non sa di che cosa mi priva. Fin quando io osservo il buio da dietro i vetri, esso non mi fa paura. Non vedendolo più, vivo nel timore che esso mi soffochi, stritolandomi assieme alla mia casa.

Pure oggi ho atteso l’arrivo di questo messaggero della notte con ansia crescente, da quando ho finito di fare i compiti. D’inverno esso giunge di colpo e porta con sé la tenebra, che copre di nero persone e cose. E ora che mia madre ha sprangato le imposte, io vado a sedere vicino a uno spigolo del tavolo appoggiato al muro della sala da pranzo: così almeno creo l’illusione di proteggermi dall’urto della tenebra, che di già circonda la mia casa.

E aspetto.

Attesa vana non è la mia, né lunga: silenziosa mi raggiunge la paura, in punta di piedi insinuandosi nel mio corpo fino a farlo fremere come quello di una persona, che soffre a causa del freddo intenso. Dalla cucina, intanto, vengono delle voci, che mi fanno riprendere il contatto con la realtà. E’ arrivato mio padre, dopo una giornata trascorsa in campagna: possediamo un appezzamento di terra non molto distante dal paese e lui, dall’alba al tramonto del sole, segue il lavoro di alcuni contadini presi a giornata. Io vorrei correre dal mio vecchio, salutarlo, abbracciarlo. Sentire il suono della sua voce mi libererebbe da questa stretta, che mi farà uscire di senno. E, però, non posso farlo, perché mio padre mi permette di avvicinarmi a lui soltanto all’ora di cena.

Fuori, frattanto, il buio si è fatto più fitto e la tenebra starà serrando in una morsa la mia casa. Il mio cuore batte forte. La mia paura cresce ancora, s’ingigantisce, diventa sgomento, angoscioso spasmo del corpo e della mente, animo che si decompone.

E’ terrore panico il mio?

Mi sento avviluppato come in una spirale, che mi trascina verso l’orlo di un abisso! Mi faccio piccolo piccolo, premo il petto contro il tavolo, solo ora mi accorgo che sopra di esso c’è il tappeto di velluto rosso brillante che prediligo. Questo colore così vivace mi sarà di qualche aiuto?

C’è tanta nebbia nella mia testa! Tanta nebbia, che ora s’infittisce, ora si dissolve, ora s’addensa, ora si dirada, Che cosa può essermi successo? Chi mi ha derubato del pensiero, della memoria, dei sogni? Chi ha privato la mia vita di ogni bellezza futura? Ora che non riesco a muovermi come gli altri, un uomo e una donna molto avanti negli anni mi portano in giro per la casa sopra una sedia a rotelle e, quando fuori si fa buio, mi sistemano dietro la finestra, che, da tanto tempo, ha le imposte aperte giorno e notte. Dietro i vetri, io vedo l’alba spuntare e la sera scendere, la luce del giorno e l’oscurità della notte e m’addormento con dolcezza, quando il sonno vince le mie ore di veglia. Non so dire chi siano la donna e l’uomo che si occupano di me, anche se mi sembra di vedere i loro volti da sempre: volti familiari, dove scolpiti sono un dolore terribile e un infinito amore.

Antonio Cammarana
La morsa del nulla: linea ultima
dell’infamie trompeuse de la vie.