Verso la fine degli Anni Cinquanta, ogni mattina, assieme a tanti ragazzi e ragazze della mia età, con l’autobus dell’AST, che da Acate ci portava a Vittoria, raggiungevo la Scuola Media Statale “Vittoria Colonna”.
Appena un chilometro oltre il centro abitato, in contrada Casazza, alla mia destra, vedevo una trazzera che recava a un complesso di case rurali, di cui si scorgevano le tegole dei tetti e parte delle mura. Proprio all’inizio del sentiero di campagna c’era una struttura a forma di piramide d’imprecisato materiale, che poggiava su quattro grossi tubi di ferro e che aveva al suo vertice una croce.
Per otto anni di seguito, tranne le domeniche e i giorni di vacanza, vidi, due volte al giorno, questa scheletrica ed enigmatica costruzione, immaginando spesso che fosse un posto di guardia per consentire o vietare l’accesso al casale; per otto anni di seguito, almeno una o due volte la settimana, sentii la voce del bigliettaio dell’autobus dire al collega conduttore di fermare il mezzo per fare salire o scendere diverse persone che andavano o venivano da lì. Dopo le Medie e le Superiori non salii più sul mezzo pubblico per Vittoria, gli studi universitari mi portarono a Catania, l’insegnamento mi catapultò in Piemonte a Chieri, a Beinasco, a Carmagnola, a Torino. Non dimenticai però la piramide con la croce, né la trazzera che portava al caseggiato di campagna, che rividi quando, tornato nella mia terra di Sicilia, in macchina da Acate-antica Biscari mi recavo a Vittoria. Nel giugno del 2013, l’amico Stefano Pepi mi fece dono del volume “Obiettivo Biscari” sullo sbarco anglo americano in Sicilia del luglio 1943, scritto assieme a Domenico Anfora e con la Prefazione di Giovanni Iacono per la Casa Editrice Mursia di Milano. L’introduzione al testo, firmata dai due Autori, mi fece tornare indietro nel tempo ai miei undici anni, allorquando in autobus passavo in Contrada Casazza e vedevo la piramide e la grande costruzione. Dopo la presentazione del libro alla Società Operaia di Mutuo Soccorso “Giuseppe Garibaldi” del mio Paese, chiesi a Stefano di poter visitare il terreno e il fabbricato, chiamato Case Paternò di Contrada Casazza, da qualche anno acquistati dai suoi genitori. Fu in un pomeriggio di febbraio del 2014 che Stefano Pepi, Domenico Anfora, Giovanni Iacono e io raggiungemmo il posto. Così vidi da vicino quello che ritengo un monumento alla memoria eretto sia dai proprietari e dai contadini del luogo, sia dai soldati americani che da Vittoria (la prima città della Sicilia che si arrese agli Alleati) avanzavano verso Acate:
quattro grossi pali di ferro ormai arrugginiti – uno di essi corroso in tutta la parte mediana – sorreggono la cupola a piramide al cui vertice sta una croce ricavata da tubi di alluminio con otto buchi, quattro in orizzontale e quattro in verticale. Dalle testimonianze rilasciate dai proprietari a Stefano e ai suoi familiari attraverso i fori era avvitato alla croce un simbolo religioso celtico irlandese. Sotto la tettoia a forma piramidale, per molti anni, ci fu una statua di pietra raffigurante San Patrizio, protettore dell’Irlanda e degli americani di origine irlandese. Alla base dei quattro lati di questa copertura ci sono dei perni, che sorreggevano strutture contenenti vasi per fiori. E questo spiega, secondo quanto mi dice Stefano, il pellegrinaggio di persone del posto che, per anni, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, continuarono a portare mazzi di fiori. Siamo nel territorio di Vittoria, ci troviamo ad appena un chilometro sia da Acate, sia da Monte Calvo. I militari tedeschi, che erano stanziati nel caseggiato, nell’imminenza dell’invasione anglo-americana della Sicilia, avevano in dotazione una batteria antiaerea, oltre all’armamento tipo di un avamposto germanico in zona di guerra. Il luogo era stato scelto in base alla sua posizione strategica, che consentiva ai tedeschi di controllare Acate, Comiso e il suo aeroporto, il litorale di Macconi fino alla foce del fiume Dirillo e Monte Calvo.
Ci avviciniamo Pepi, Anfora, Iacono ed io al rustico, che copre un’area di tremila metri quadrati e che si presenta subito, ora che vi siamo vicini, come un antico casale fortificato a forma di ferro di cavallo con palazzo padronale o pars dominica, corte interna con pozzo per l’acqua, palmenti per la raccolta delle uve e delle olive da trasformare in loco in vino e in olio, magazzini per il frumento e altri prodotti della terra, stalle per gli animali, laboratori con i principali mestieri per produrre strumenti di lavoro e manufatti della vita quotidiana. Insomma una curtis vera e propria, non medioevale, ma moderna, con sistema economico chiuso e aperto, in cui si produceva ciò che era necessario per il consumo interno e per gli scambi con l’esterno.
La corte interna o baglio ha una struttura quadrangolare, in parte saccheggiata da ignoti visitatori diurni e notturni. Immediatamente alla sinistra della scala di pietra, che permette di accedere alla parte padronale, troviamo un capitello con la scritta 1765 VO I> 46. In un altro capitello non molto distante dal primo, un’altra scritta <<904 HG> 179° U.S.>>.
Nel 1943, il 10 luglio, un aereo americano con paracadutisti, di cui molti feriti, colpito dal fuoco proveniente da navi amiche, precipitò a cento metri dall’ingresso del caseggiato. Come se fossero caduti vicino ad una fossa di leoni o ad una tana di lupi, i paracadutisti diventarono bersaglio della batteria tedesca. I soldati e gli ufficiali dello zio Sam, che riuscirono ad uscire dal velivolo, risposero al fuoco nemico, ingaggiando una dura battaglia, anche se alla fine morirono tutti.
Ancora oggi è possibile trovare rottami dell’aereo, bossoli di mitragliatrici e di K98 MAUSER tedeschi, nonché bossoli e proiettili di Garand americani.
Tutto quello che era in dotazione dei militari statunitensi: cassette, stoffe di paracadute, taniche, borracce, mitra, fucili, baionette, bombe a mano vennero trafugati o trasformati dai contadini e dai proprietari del luogo in oggetti d’uso personale casalingo e campagnolo.
Pepi, Anfora, Iacono ed io lasciamo lo spazio chiuso, ancora una volta
facciamo il giro di tutto il complesso di Case Paternò. Comiso è davanti a noi con il suo aeroporto; alla sua sinistra vedo, in tutta la sua magnificenza e possanza, il vulcano dell’Etna imbiancato di candida neve; Acate con la sua Chiesa Madre e i suoi campanili, che da sempre fanno corna beffarde al visitatore, ed il cinquecentesco Castello dei Principi di Biscari; ed ancora le acque luccicanti della marina di Macconi e l’altura di Monte Calvo, da dove gli americani, che provenivano da Vittoria, cannoneggiarono per l’ultima volta Acate, ormai abbandonata dalle truppe italo-tedesche in ritirata; e da cui si mossero, per salvare il paese dal fuoco statunitense, “il profugo d’Africa, cav. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese; il calzolaio Giovanni Gallo; il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma”.
Esterna ed indipendente dalla costruzione si presenta a noi ciò che rimane della secentesca chiesetta, che doveva avere una estensione,
stando ai modesti ruderi che osserviamo, di sessanta metri quadrati e quindi capace di ospitare per le funzioni religiose la popolazione contadina e padronale del luogo.
Dalle ricerche effettuate e dalle testimonianze avute dalla famiglia Pepi la chiesetta fu abbattuta dalle batterie americane, che bombardavano Acate da Monte Calvo.
Il sole comincia a calare, nel dolce declino i suoi raggi non offendono più gli occhi, mentre permettono di osservare, in tutto il suo verde brillante di questo inverno piovosissimo, l’erba di tutta la campagna circostante. Pepi, Anfora e Iacono sono visibilmente soddisfatti di avermi fatto visitare questo luogo, che fu teatro di un cruento e sanguinoso episodio di guerra, e in cui scaturì un’accesa lite verbale tra Anfora e Pepi, che si trasformò in una solida amicizia e aprì la strada alla stesura di un testo che apporta nuovi dati e notizie sullo sbarco anglo-americano in Sicilia.
Da parte mia sono lieto di avere trascorso un pomeriggio, che ha arricchito il mio bagaglio culturale con la conoscenza di un luogo storico della Seconda Guerra Mondiale, con gli autori di “Obiettivo Biscari”. Ho calpestato un pezzo di terra da tempo figlia del silenzio, che custodisce il lontano tuono dei cannoni americani e il crepitio delle mitragliatrici tedesche, un luogo dove ancora ai fortunati visitatori potrà succedere di trovare qua e là bossoli schegge e arrugginiti rimasugli di rottami di armi e di mezzi, che furono portatori di dolore di morte di desolazione.
Mi fermo ancora a guardare la piramide e la croce con gli otto buchi, gli amici mi dicono che dovrebbero essere interessate le autorità militari statunitensi per il recupero e il restauro dell’edicola storica innalzata a San Patrizio. Io abbasso la testa, in segno di assenso, poi a parole riesco a proferire che sì, questa è la cosa più giusta da fare. L’esercito degli Stati Uniti sa onorare tutti i propri soldati in qualunque parte della terra essi combattono e muoiono. Noi, forse, lo sapremo fare in un futuro vicino o lontano, quando, sopra i morti delle nostre guerre, non sarà più buttato il fango delle ideologie politiche.
Prof. Antonio Cammarana
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