Anche quest’anno quell’insegnante di lettere, che assomiglia più ad uno scrittore che ad un docente e che tutti, in questa scuola, chiamano il “professore”, starà seduto, per diverse ore della settimana, in questa stanza piena di armadi. – “Che cosa ci sta a fare?” – chiedete voi. Ho capito, vi ho incuriosito e volete saperlo.
La stanza è adibita a biblioteca e il professore distribuirà libri ai colleghi e agli alunni, che ne faranno richiesta, dal dieci ottobre al venti maggio. Chi sono io?
Mi domandate come faccio a sapere tutte queste cose di lui?
Non ho difficoltà a rispondervi. Io sono il pensiero creativo del professore, uscito dalla sua testa, che vive felice nello spazio del fantastico, che, di tanto in tanto, gli si avvicina, rivolgendogli quesiti sulla cultura e sulla produzione libraria nazionale e internazionale, che, un tempo, gli stavano molto a cuore. Non sempre riesco ad ottenere risposte alle mie domande, perché chiunque potrebbe entrare in biblioteca e si creerebbe una situazione imbarazzante. Proprio come quando un bidello, senza bussare alla porta, ci sorprese assieme, o meglio rimase meravigliato che il professore parlasse da solo.
E, mentre io sorridevo in disparte, per la scena che si era creata, il professore si giustificò dicendo che si lamentava con se stesso, perché doveva dare per smarrito il testo di Albert Beguin “L’anima romantica e il sogno”, che gli stava molto a cuore.
A questo punto, lettore, non credere che la vena di questo racconto sia quella dell’humour, tutt’altro; io ho voluto introdurlo in questo modo, ma avrei potuto presentarlo diversamente. Anche quest’anno il professore si occuperà della biblioteca. I suoi colleghi sostengono che lui considera la biblioteca una parte di se stesso e che non riesce a fare a meno della frase che gli alunni, ormai, da sempre ripetono, quando entrano: “Professore, un libro!”; e, immaginano la scena, che segue: il professore, che volge lentamente la testa in direzione del ragazzo e che risponde invariabilmente: “Un libro? Su quale argomento?” e che conclude, con un’unica emissione di voce: “Dovrebb’esserci!”, dopo che l’alunno, a volte in modo chiaro, spesso in modo confuso, gli ha fatto capire quale tema vuole approfondire.
Non tutti sanno, però, che, per dare un libro in prestito, il professore, in primo luogo, dovrebbe andare a prendere il testo dallo scaffale, ma si limita ad alzare una mano per indicare all’alunno la direzione in cui cercare; in secondo luogo, dovrebbe annotare, nel registro dei prestiti, i dati relativi al testo, la sua collocazione, il nome dell’alunno e della classe, ma lui fa eseguire questo lavoro al ragazzo stesso; poi, con un: “Vai pure!”, il professore dovrebbe invitare l’alunno, che vuol perdere tempo in biblioteca, a tornare subito in classe; ma lui esprime ciò con un semplice gesto del capo e, se l’alunno gli sembra proprio un tipo abituato a graffiare minuti, gli fa capire, con un altro gesto del capo, più significativo del primo, che può farlo fuori dalla biblioteca, mentre ritorna nella sua classe.
Il professore compie, ormai, queste operazioni in modo meccanico. E’ necessaria, forse, una grande fantasia creativa per indicare un libro di cui si conosce, da tanto tempo, l’argomento e la collocazione, e per farne registrare il prestito? Anni addietro l’incarico di bibliotecario venne conferito al professore per la sua preparazione culturale, le sue conoscenze bibliografiche, i consigli che poteva dare al momento di proporre nuovi testi per gli alunni e per i docenti.
Ma, ora, che la cultura è diventata visione e ascolto su internet; ora che nella scuola e nella società si stanno perdendo sia il piacere di leggere come attività abituale, sia la pratica dell’espressione scritta come condizione indispensabile alla manualità del pensiero, il professore che cosa ci sta a fare in biblioteca?In verità il professore non avrebbe voluto accettare l’incarico.
E soltanto io, che sono il suo pensiero creativo, ne conosco la ragione. Il professore, negli anni della guerra fredda, lesse, su “La stampa”, un articolo di fondo, che lo scosse parecchio. Il deterrente nucleare delle due superpotenze, U.S.A. e U.R.S.S., era talmente alto, che poteva distruggere il mondo almeno sette volte. Non solo, ma Stati Uniti e Unione Sovietica erano paragonati a due scorpioni, chiusi nella stessa bottiglia, di modo che, se uno attaccava per primo l’altro, quest’ultimo, prima di soccombere, aveva il tempo di colpire a morte l’avversario.
La pace, allora, diventava soltanto l’illusione di un secondo, che poteva essere calpestata un instante dopo; e la vita continuava, sulla terra, solo perché nessuna delle due superpotenze sarebbe sopravvissuta all’altra, dopo lo scatenamento della catastrofe.Questo articolo sortì l’effetto di trasformare un tipo dinamico, come il professore in un essere pigro.
Pigrizia mentale, come rinuncia alle operazioni creative del pensiero; pigrizia fisica, che lo indusse a rimanere seduto per ore con gli occhi socchiusi, in uno stato di apatia. Né il professore ha più aperto un libro, eppure leggeva molto.
Né ha più scritto un rigo e pareva avviato a imporre uno stile personale.
Né ha chiesto di insegnare all’Università, pur avendone i titoli: avrebbe dovuto presentare, tra l’altro, domanda di docenza, proprio quando veniva perdendo confidenza con carta e scrittura e la stanchezza metafisica, che si oppone al pensiero pensante, si impadroniva di lui. Per questi motivi io mi sono allontanato dalla sua testa: come pensiero produttivo, infatti, sono fantasia immaginazione creatività e non meccanica ripetizione.
D’altronde il professore non poté lasciare la biblioteca. Così quello che tutti, a scuola, chiamano “il professore”, per me, è soltanto un gesto della mano, che indica la collocazione di un libro richiesto; un’emanazione di voce, che ripete sempre “dovrebb’esserci!”, in risposta alla millesima domanda: “Professore, un libro!”.
Antonio Cammarana
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