Nel novembre del 1967 (Anno Accademico 1967-1968), aprendo il Primo Corso di “Storia della filosofia”, fondato sulla vita e sulle opere del filosofo di Castelvetrano, il Prof. Domenico d’Orsi, ad una attentissima platea di studenti, nella seconda aula grande (oltre seicento posti a sedere) dell’Istituto Universitario di magistero di Catania, diceva:
-“Oggi cominciamo un discorso documentatissimo su Giovanni Gentile filosofo, pedagogista, educatore, autore della Riforma della scuola che porta il suo nome, ideatore animatore costruttore e direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana Treccani, il miglior ministro della Pubblica Istruzione che l’Italia abbia avuto e abbia a tutt’oggi.
Assassinato il 15 aprile del 1944 da unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.)”.
Non ho dimenticato la fortissima impressione che mi fecero quelle parole, che da allora mi porto appresso senza cessare di ricordare, perché quella di Giovanni Gentile, è stata, assieme a quella di Benedetto Croce, la figura più rappresentativa del mondo della cultura italiana nella prima metà del Ventesimo secolo.
Né ho smesso di chiedermi se i motivi politici, che hanno portato alla
morte del filosofo di Castelvetrano, possono essere addotti a giustificazione dell’assassinio di una persona armata soltanto della forza della sua concezione della vita e del mondo, crimine di cui la stampa clandestina comunista e paracomunista si gloriò, quando il destino della Repubblica Sociale Italiana era ormai segnato.
Ho sempre dichiarato che nessun assassinio può trovare una giustificazione, nemmeno per motivi politici. Ma una giustificazione la trovò, nel 1944, Concetto Marchesi, prima professore (dal 1923) all’Università di Padova, poi Rettore (dal 1943) dello stesso Ateneo, autore di una ormai classica e credo insuperata “Storia della letteratura latina “(1925, 1927) in due volumi, scrivendo:
-“Quanti oggi invitano alla concordia sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti invitano oggi alla tregua vogliono disarmare i patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti, perché consumino i loro crimini.
La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, l’ultimo traditore fascista non sia stato sterminato.
Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!”.
Che cosa aveva fatto e che cosa aveva scritto il filosofo Giovanni Gentile per meritarsi la sentenza di morte emessa da una fantomatica giustizia del popolo e soprattutto da un fantomatico popolo, se fino al 25 aprile del 1945 la grande maggioranza degli Italiani preferì non compromettersi con nessuna delle due parte in lotta – come scrive Gianni Oliva ne “L’Italia del silenzio”-, restando indifferente a guardare gli uomini della Repubblica Sociale Italiana e gli uomini della Resistenza, che si scannavano a vicenda e aspettando il giorno in cui gli Alleati avrebbero definitivamente sopraffatto le Forze Armate Tedesche in Italia e in Europa?
Giovanni Gentile aveva ripreso il suo posto di combattimento, in prima linea, senza avere paura di coloro che minacciavano e uccidevano a tradimento. Soprattutto aveva ripreso a scrivere.
Per l’Italia. Dal “Discorso agli Italiani” (In Campidoglio, 24 giugno 1943) a “Ricostruire” (Corriere della sera, 28 dicembre 1943), a “Ripresa” (Nuova Antologia, I Gennaio 1944) a “Questione morale” (Italia e Civiltà, 18 gennaio 1944) a “Giambattista Vico nel secondo centenario della morte” (Firenze, 19 marzo 1944), a “Il sofisma dei prudenti” (Civiltà fascista, aprile 1944) via via maturano le parole che, una volta ancora, riaffermano il suo coraggio e la sua consapevolezza di andare incontro ad un destino di morte:
-“Oh, per quest’Italia noi ormai vecchi siamo vissuti: di essa abbiamo
parlato sempre ai giovani, accertandoli ch’essa c’è stata sempre nelle
menti e nei cuori; e c’è, immortale. Per essa, se occorre, vogliamo morire; perché senza di essa non sapremo che farci dei rottami del miserabile naufragio; come già non ci regge più il cuore a cercare, in quell’ombra vagolante, tra le imprecazioni del popolo tradito e i sorrisi ironici o i disegni altezzosi dello straniero, il nostro Re, che fu già in cima ai nostri pensieri, perché ai nostri occhi incarnava nella sua persona la Patria, che non avremmo mai sospettato potesse proprio da lui essere consegnata al nemico” (Dichiarazione premessa alla Commemorazione del secondo centenario vichiano).
Per l’Italia Giovanni Gentile morì assassinato, dentro l’automobile che il 15 aprile del 1944, verso le tredici e trenta, l’aveva portato a Villa Montalto nel quartiere Salviatino, da quattro unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.) i cui nomi, secondo quanto si evince dalla lettura de “La sentenza” di Luciano Canfora, sono: Bruno Fanciullacci, “esecutore materiale dell’uccisione” del filosofo di Castelvetrano; Giuseppe Martini; Luciano Suisola; Marcello Serni.
A Bruno Fanciullacci, morto in seguito ad un tentativo di fuga, dopo l’arresto e l’interrogatorio (certamente condotto con mano pesante) da parte dei membri della Banda Carità, è stata conferita la medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria; il comune di Pontassieve (Firenze) ha intitolato una via a suo nome; il comune di Firenze gli ha dedicato lo slargo di Villa Triste.
Per quanto riguarda i mandanti “manca tuttora una versione per così dire ufficiale del P.C.I. (diventato PDS, DS, PD aggiungo io) sul caso Gentile.
Unica costante sinora – in tanto variare di successive e provvisorie verità provenienti dalla forza politica che esercitò il maggior peso in quella operazione – il ricorso al nome di Marchesi ed al suo celebre scritto. Non c’è rievocazione dell’attentato che non riproduca ogni volta per intero quello scritto: come autorevole avallo, o come alibi morale, o come esplicita sentenza di morte” (Luciano Canfora, La Sentenza, Sellerio Editore Palermo, 1985, pag. 298).
Riprendendo tra le mani la “Storia della letteratura Latina” del Prof. Concetto Marchesi mi sembra ormai di tenere tra le mani un ripugnante e grottesco fiore, rosso del sangue dell’innocente vegliardo e mentore della filosofia e della cultura italiana tra le due guerre mondiali.
Leggendo le pagine di “Genesi e struttura della società”, l’ultima opera di Giovanni Gentile, pubblicata postuma nel 1947, non posso fare a meno di fermare la mia attenzione su ” La Società Trascendentale, la Morte e l’Immortalità”, che mi ha permesso di coniare la frase, che mi ha sempre aiutato a vivere a scrivere e ad insegnare: E l’uomo supera la morte nell’immortalità del pensiero che pensa; e pensando e scrivendo è creatore di opere: muore l’uomo (mortale), rimangono le sue opere (immortali).
Il tempo degli assassini ebbe facile gioco sul settantenne filosofo di Castelvetrano, che si muoveva senza scorta, arditamente, guidato dalla forza e dalla coerenza delle sue idee (“Per quest’Italia, se occorre, vogliamo morire”), che non conobbero né il sofisma dei prudenti, né il trarsi indietro, né il cambiar casacca nell’ora più difficile della sua vita: l’Ora della prova.
Ed io ricorderò ancora – come fosse oggi, come sarà sempre – il fortissimo turbamento determinato dalla parola del professore Domenico D’Orsi, nella vasta e commossa platea di noi studenti, in quel lontano novembre del 1967. Parola a cui non affianco nessun aggettivo per cercare di qualificarla meglio, perché qualsiasi aggettivo ne sminuirebbe la carica e il pathos.
“Il 10 gennaio 2000 Achille Totaro, che all’epoca era consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Firenze, durante una seduta del consiglio comunale, commentando l’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta nel 1944, dichiarò: – Bruno Fanciullacci fu un assassino. Ha ammazzato un filosofo di 70 anni. Gentile venne colpito mentre era indifeso. Non fu un’azione di guerra, ma l’opera di un vigliacco. Un assassino vigliacco -. L’ANPI e la sorella di Fanciullacci denunciarono Totaro per diffamazione e gli altri consiglieri comunali che avevano firmato un appello di sostegno.
Tutti gli imputati furono processati ed assolti nel 2007. Infatti, secondo il giudice Giacomo Rocchi, le opinioni espresse da Totaro ” sono sì aspre, ma adeguate alla gravità del fatto”. L’accusa decise di appellarsi e nel nuovo processo gli imputati furono condannati al risarcimento morale dei danni e a pagare le spese processuali, mentre l’accusa di diffamazione fu considerata ormai prescritta. Anche se la condanna fu completamente simbolica, essendo i danni morali quantificati nella somma di un solo euro, Totaro e gli altri coimputati ricorsero ugualmente in Cassazione venendo quindi assolti nel 2010, ” perché il fatto non costituisce reato” (Wikipedia, l’Enciclopedia Libera, Bruno Fanciullacci, pag.2).
E questo a me basta per concludere che il tempo degli assassini si ritorce (si ritorcerà sempre) sullo stesso assassino e sul mandante o sui mandanti di quel crimine efferato, che il Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana nel 1944 disapprovò con la sola esclusione del Partito Comunista Italiano.
Antonio Cammarana