Biografia
È stato, dal 1972 al 1990, docente ordinario di italiano, latino, storia ed educazione civica e geografia nella scuola media e di italiano e storia negli istituti superiori di Torino e provincia. Lasciato l’insegnamento, si è immerso sia nella lettura sistematica delle grandi opere di storia moderna e contemporanea, sia nell’esame dei temi dei motivi e delle immagini della lirica universale.
Pensiero
Allievo di Carmelo Librizzi, con il quale si è laureato in Pedagogia, nel 1971, all’Istituto Universitario di Magistero di Catania; e di Domenico D’Orsi, che lo ha avviato sia allo studio e alla conoscenza, sia alle considerazioni critiche e alle esigenze sistematiche delle opere di Giovanni Gentile e su Giovanni Gentile, Antonio Cammarana – come ha messo in evidenza Armando Plebe – “guidato da un criterio lodevolmente moderno”, ha scritto un saggio che valorizza “gli elementi più essenziali del pensiero” del filosofo di Castelvetrano. Successivamente la riflessione critica sulla filosofia anteriore e posteriore all’idealismo tedesco, in particolare l’approfondimento del materialismo storico e dialettico di Carlo Marx, del problematicismo di Ugo Spirito e della filosofia della reazione di Armando Plebe hanno portato Antonio Cammarana ad elaborare una originale filosofia, culminante nella proposizione di un io reazionario dialettico, che si batte per il superamento del privilegio sociale e della lotta di classe; allo scopo di costruire una visione della vita e del mondo in cui il lavoro sia momento di unificazione, di pacificazione e di elevazione dell’uomo singolo e dell’umanità intera.
In seguito Antonio Cammarana ha spaziato in diversi campi della cultura (educazione, letteratura, storia), con i Flash Writings per stimolare e affiancare, nelle aule scolastiche, l’attività didattica dei preadolescenti con l’attività di ricerca degli strumenti del conoscere.
Storico, ha pubblicato, assieme a Gianfranco Ciriacono, nel 2008, la ricostruzione storica e fotografica dello sbarco anglo-americano in Sicilia (litorale di Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Scoglitti) nel luglio del 1943.
Nel campo della poesia ha rappresentato, nel viandante, la figura del poeta che comunica, una volta ancora, una particola soltanto dell’irraggiungibile incanto e mistero, che dorme dentro il cuore delle cose.
Nella raccolta “Fiaba d’inverno e altre poesie” il viandante è un giovane in fuga dalla società e dallo Stato, prima che dalla famiglia, dalla casa, dalla terra. Fuga vissuta come viaggio non programmato, che spesso cede al ricordo del se stesso che fu con i bagliori improvvisi dello sguardo interiore proprio del mondo dell’infanzia (“La torta a casetta”, “C’era l’asino, il cane e il gatto”, “La lunga tromba del banditore e l’uomo dritto su gambe di legno”). I luoghi in cui il viandante si ferma (le pareti di una fredda caverna ne “Il pino di Bihac”; il fuoco acceso, in mezzo alla neve, nella lirica “Natale”), il ribrezzo e l’orrore per i crimini di guerra del “Kossovo” non sono punti di arrivo, ma soste temporanee. Il cammino del viandante riprenderà sempre, mai in compagnia, diventando lontananza dal mondo della vita, itinerario di solitudine esistenziale in “Fiaba d’inverno”, veglia di malinconia, bisogno di riposo e di quiete in “Notte serena”.
“Notte serena”, ultima lirica della raccolta, è una felice immagine simbolica di poetica musicalità, che si apre con la descrizione del manto notturno, che chiama al riposo uomini piante animali; prosegue con la sensazione di indefinita “malinconia antica”, che la memoria restituisce, per un fuggevole attimo, come “mistero sconosciuto” e “insondabile”; si conclude con una domanda di quiete.
I versi liberi, lo stile essenziale, il viaggio di metafore sembrano creare, con lo sguardo del cuore, l’incanto di una realtà senza tempo.
Nella raccolta di versi, “Occidente e nuove ballate liriche”, come nella precedente, “Fiaba d’inverno e altre poesie”, il viandante prosegue il suo cammino, che è anche itinerario poetico, nella “Terra occidentale”: la “Terra della sera”, la “Terra del tramonto”, la “Terra della fine”.
Nascono le nuove ballate liriche, il cui contenuto affonda le radici ora nell’antico canto germanico (“Erta è la rupe della maga Loreley”, “La ballata del nano Wolfer”, “Hagen di Tronje”); ora nella sofferenza all’interno delle carceri, che trova lenimento nella discesa e nell’ascesa della luce angelica (“Angeli”); ora nella fiaba del coniglietto e del passerotto (“Little Rabbit e Pretty Sparrow”); ora nella romanza della vita breve e della follia nera di Ofelia, la vergine di Danimarca (“Ofelia”).
In “Occidente”, penultima lirica di questa seconda raccolta di versi, Antonio Cammarana effettua una ricognizione all’interno delle profondità dell’animo del viandante, che termina con una rivelazione: il viandante è stato, nella sua lontana giovinezza, Angelo nero; ha compiuto un gesto insano nel nome di una parola, Occidente, ridotta da lui (ma non solo da lui), per almeno due decenni della seconda metà del Novecento, a fonte di delirio ideologico e politico; bussa, infine, ormai vecchio e stanco, alla porta del perdono umano e divino.
La lirica “Occidente” esprime una notevole vicinanza a “Occidente – Il diritto di strage”, romanzo in cui Ferdinando Camon “esplora – come in una allucinante discesa agli Inferi – le ragioni profonde del terrorismo” (1). E, mentre a interessare Camon sono “le motivazioni pscologiche più profonde ed inconfessabili del suo leader” (2), a suscitare l’attenzione di Antonio Cammarana è l’ammissione di colpa dell’Angelo nero dell’Occidente e la sua domanda di perdono, essendo sua convinzione che “è colpevole non chi è capace di peccare, ma chi è incapace di chiedere perdono“.
L’ultima lirica, “Alba d’oro”, della silloge è anche una dichiarazione di poetica.
Ma già Antonio Cammarana aveva sentito il fascino della prosa che si volge all’esplorazione delle misteriose regioni del profondo, la malinconica dolcezza dell’anima sgomenta e triste sulle soglie del nulla: Temi che lo indurranno a ritornare spesso, con la scrittura della maturità, al mondo dell’infanzia della fanciullezza e della preadolescenza per domandare alla memoria (l’amata Mnemòsine) la restituzione di voci e di cose del lontano passato, voci e cose non ancora sepolte dalle oscure acque dell’oblio, simili al tenue riflesso della lampa nello specchio scuro e fortemente segnate dal ricordo della miseria e della fame, della precarietà esistenziale e della minaccia del carcere, della paura e dell’angoscia, della malattia e della morte nella terra che l’aveva visto nascere e crescere nel suo seno.
Viene così il tempo -all’inizio del terzo millennio- in cui, mentre affronta temi argomenti ed eventi storici del primo e del secondo Novecento (ma non solo), Antonio Cammarana comincia ad elaborare “I protocolli del nulla”, racconti fantastici strani verosimili d’ambiente con una scrittura che si focalizza nella descrizione delle voragini abissali proprie del disagio interiore e dell’angoscia, che culmina nell’immobilità assoluta, l’inazione misteriosa e incomprensibile -puzzling and incomprehensible inaction- intesa come paralisi completa del pensiero, tratteggiato in modo così sorprendentemente realistico da presentarsi ora come normale condizione dell’esistenza quotidiana, ora come grado-zero del vivere: uomini e cose sono in un cerchio di vuoto e di solitudine, privo di senso di direzione di punti di riferimento, di fragilità e di precarietà, di imminenza e di attesa, ora del nulla, ora di una risposta che non viene data.
Non inadeguati -per questi racconti- suonano le parole dello scrittore nato il 3 luglio del 1883 a Praga e morto il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling, un villaggio non lontano da Vienna:
“Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo ed ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, restatene tutto solo e in silenzio”.
(1) Ferdinando Camon, Occidente – Il diritto di strage, Garzanti libri s.p.a, quarta di copertina.
(2) Ibidem.
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