Tutti gli articoli di Antonio Cammarana

Prima Guerra Mondiale. L’imbecillità criminale che segnò la fine della Belle Epoque

Assassinio di Francesco Ferdinando

Quando Gavrilo Princip, studente serbo, assassinò, il 28 gennaio 1914, a Sarajevo, l’erede dell’imperatore d’Austria – Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, un grave turbamento pervase le capitali europee, ma nessuno ebbe coscienza che un’epoca stava avviandosi alla fine: non l’ebbero i sovrani d’Europa, né i loro diplomatici, né i loro plenipotenziari, né i loro generali; né gli industriali grandi medi piccoli; tanto meno i commercianti (presi dai loro traffici), gli artigiani (chiusi nelle loro botteghe), i contadini (che zappavano le terre feudali dei padroni).
Da tempo l’Europa viveva un’epoca di pace, di agiatezza, di prosperità, di invenzioni, di scoperte scientifiche e tecniche, che avevano portato i transatlantici, i dirigibili Zeppelin, gli aerei, i treni, i tram, le metropolitane, le automobili, l’elettricità, il cinematografo, la fotografia, il telefono, il telegrafo, i fornelli, le stufe, i ferri da stiro.
Erano migliorate le condizioni igieniche, erano progredite le conoscenze mediche, si erano costituite le organizzazioni sindacali, il diritto di voto veniva progressivamente esteso a tutti i cittadini maschi.
Cominciava a prendere piede l’alfabetismo con l’istituzione delle scuole elementari, si facevano più prospere le condizioni economiche, si diffondeva una grande illusione, l’illusione di vivere in un crescente benessere che, prima o poi, avrebbe raggiunto tutte le classi sociali. Questa illusione alimentava una euforia universale, soprattutto nelle grandi capitali europee, centri concreti e tangibili di splendore e di prestigio. In modo particolare Vienna, capitale dell’operetta e del valzer; Berlino, capitale del militarismo mondiale; Londra, patria dell’industrializzazione e del colonialismo; ma soprattutto Parigi, che, negli anni che vanno dall’inizio del 1900 al 1914, divenne il simbolo di un’età felice; a cui si addicevano gli aggettivi propri di un’epoca prospera e i sostantivi legati a un senso di superiorità rispetto ai popoli dei continenti extra-europei; verso cui convergevano la moda la cultura il divertimento, gli aristocratici gli altoborghesi, gli artisti gli scrittori i poeti i pittori; in cui prosperavano il “Mouline Rouge” e il “Chez Maxim’s” “con le relative
“Chambres Séparés”, di cui Toulouse-Lautrec ha saputo eternare gli aspetti più squallidi e disgustosi” (Mittner), perché mostricciatolo dal pennello geniale; “Chambres Séparés”, di cui furono protagonisti principali e indiscussi le moderne “ammiratissime cortigiane come Cléo de Mérode, mantenuta di lusso di Leopoldo III del Belgio, per non parlare di altri regnanti o di principi e banchieri meno facoltosi o generosi “(ibidem)”.
Quando l’impero d’Austria-Ungheria inviò un ultimatum alla Serbia, ponendo delle condizioni inaccetabili, con il non troppo segreto intento di vederselo respingere, allo scopo di attaccare militarmente la Serbia, schiacciarla, annetterla tutta o in parte oppure esigere un forte indennizzo, nessun sovrano o diplomatico europeo prevedeva ripercussioni più ampie di una guerra limitata tra il senescente elefante austro-ungarico e il giovane lupo serbo.
Il meccanismo delle alleanze e il rispetto delle loro clausole segrete fece precipitare, però, nella catastrofe, i maggiori Stati europei. I quali, soltanto in apparenza, cercarono di evitare un conflitto che si rivelerà senza precedenti nella storia d’Europa, sia per mai superati motivi di “revanche” (la Francia nei confronti della Germania) o di influenza (tra l’impero d’Austria-Ungheria e l’impero Russo nei Balcani), sia perché non si resero conto che la vera partita militare si sarebbe giocata tra l’impero britannico e l’impero germanico che, all’alba del 1900, erano i due galli del pollaio europeo.
Il primo, perché intendeva mantenere intatto il primato del suo potere industriale navale e coloniale a livello mondiale, che considerava indiscutibile.
Il secondo, perché incominciava a costituire una reale minaccia al predominio assoluto dell’Inghilterra su tutti i mari, avendo raggiunto una estensione territoriale e una potenza economica e militare senza precedenti nella sua storia.
Come si permetteva il gallo germanico di insidiare e di mettere in discussione l’indiscutibile supremazia britannica su tutte le acque del globo?
La prima guerra mondiale durò 51 mesi, oltre quattro anni. Cominciata come guerra di movimento, ben presto diventò guerra di posizione, poi guerra di logoramento, infine guerra di annientamento delle forze offensive fisiche e spirituali dell’avversario.
Si combatté principalmente sul continente europeo, ma coinvolse nazioni di altri continenti come gli Stati Uniti, l’impero turco, il Giappone imperiale.
Mobilitò risorse umane e risorse del territorio in modo totale.
Si lottò con le armi, con le idee, con i giornali, con i volantini, con le notizie false, con la criminalizzazione del nemico.
Il soldato al fronte, il soldato in carne ed ossa, il fante che fu il vero emblema della Grande Guerra, ora combatté, ora disobbedì, ora si diede ammalato, ora fuggì, ora si ammutinò, ora impazzì, ora si suicidò, ora subì la più orribile delle punizioni, la decimazione.
I generali furono certamente i grandi criminali del conflitto. Lontani dai fronti di guerra, mandarono al massacro milioni di uomini per conquistare una trincea, spesso una manciata di terra che avrebbero perduto un giorno, una settimana, un mese dopo.
Ogni città, ogni paese, a partire dal 1919, eresse un monumento ai caduti in guerra.
Nessuna città, nessun paese eresse un monumento all’Imbellicità Criminale Europea (dei sovrani, dei ministri, dei diplomatici) causa fondamentale, a partire dalla fine della “Belle Epoque” e della “Grande Guerra” della decadenza e del declino dell’assoluta supremazia mondiale, nel campo tecnologico scientifico e culturale, dell’Europa. Ogni città, ogni paese d’Europa attende ancora di innalzare questo monumento più duraturo del tempo.
Attenderà ancora!
Perché l’Imbecillità Criminale, che è figlia dello stomaco e non della testa, è patrimonio generazionale comune dei governanti di ogni terra e di ogni epoca.

Antonio Cammarana

Memory

Memory
Uscii di casa in ritardo, percorsi in fretta via Duca D’Aosta e arrivai finalmente all’interno della palestra all’aperto della Scuola elementare “Capitano Puglisi” di via Balilla. Trovai parecchi miei compagni di classe.
Due di essi parlavano animatamente non di quale cinema fosse migliore in paese, ma dei film che si proiettavano alla comunità. Erano i primi anni Cinquanta e la visione di un film in bianco e nero, in seguito anche a colori, affascinava grandi e piccini.
Di recente, il cineteatro Eden del commendatore Morale aveva proiettato “Guerra e Pace”, un film cinemascope e technicolor della durata di quattro ore con scansione in quattro tempi, tratta dall’omonimo romanzo storico dello scrittore russo Leone Tolstoj.
E uno dei miei compagni di classe ne magnificava l’eccezionalità per gli attori, per i colori, soprattutto per le scene che riscostruivano l’ambiente climatico e la catastrofe della Grande Armata di Napoleone Bonaparte sulla strada del ritorno da Mosca al ponte della Beresina al territorio europeo vero e proprio fino alla disfatta finale a Waterloo.
Ma non aveva fatto i conti con l’altro mio compagno di classe, che aveva la fortuna di potere vedere gratuitamente tutti i film che venivano proiettati al cinema di don Salvatore Castiglione sia d’inverno che d’estate. E che, come una mitragliatrice in piena azione di contenimento di un assalto alla baionetta di una trincea, cominciò a sparare a raffica titoli di film e contenuti in modo stupefacente. Da “Sansone e Dalila” a “La tunica” a “I dieci comandamenti”, da “I figli di nessuno” a “Roma città aperta” a “Catene”, pellicole che rappresentavano il momento “clou”, di massimo interesse al cinema Castiglione, quelle per cui si mandavano i ragazzini a chiedere alla moglie del titolare, donna Giovannina, se quella sera stessa si proiettasse un film di “cianciri”, cioè che faceva piangere.
Lei invariabilmente e puntualmente rispondeva: “Cà sicuru, dall’inizio alla fine” e “Purtati i seggi di casa, perché stasera (da leggere “come al solito”) i posti non basteranno”. Intanto arrivava il maestro, che, gridando e roteando la bacchetta, si sforzava di “raccozzare” (proprio come fa il Griso con i Bravi ne “la notte degli imbrogli” de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni) tutti gli alunni della classe, che si schieravano ora a favore di un compagno ora dell’altro. E finalmente, dopo essere stati messi in fila per due, uscivamo dalla palestra scoperta e ordinati e composti come bravi soldatini entravamo nell’edificio scolastico dal portone di via Balilla, lasciando alla nostra sinistra una schiera di alunni che cantavano – musicato da Giacomo Puccini tre anni prima dell’avvento del Fascismo – “L’inno a Roma”: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
L’Italia stava uscendo faticosamente dalla catastrofe del secondo conflitto mondiale; contadini braccianti agricoltori faticavano, dall’alba al tramonto del sole, nei campi, con zappe e aratri, muli cavalli e asini. Eppure l’inno a Roma, esaltazione e celebrazione dell’Urbe (la città per antonomasia), era ancora lì – nella scuola elementare di via Balilla – a ricordare alla neonata nazione democratica (1946) le antiche origini di romano popolo guerriero di tradizione regia repubblicana e imperiale, inno che mi spinge oggi – 28 aprile 2014 – oggi, che sono ritornato indietro nel tempo con la memoria, in odore di malinconico Amarcord, a pormi una domanda perentoria e che non ammette più dilazioni:
“Quando è finito veramente il Fascismo ad Acate – antica Biscari?”
Si affacciava, intanto, siamo nel 1953, nella vita del paese – che assisteva alla grande ondata migratoria nelle regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria) – un potentissimo strumento di unità civile e culturale (ma non solo) delle genti italiane: la televisione, che, nei suoi primi anni di vita, ebbe anche un ruolo di positiva azione educativa e didattica, contribuendo ad eliminare una parte notevole di analfabetismo con programmi come “Non è mai troppo tardi”; e che radunò e inchiodò allo schermo televisivo milioni di persone con le puntate settimanali del capolavoro di Alessandro Manzoni, “i Promessi Sposi”; con i programmi pomeridiani dei ragazzi di “Zurlì, mago del giovedì”; con le serate del “Lascia o Raddoppia” di Mike Bongiorno; con “La domenica sportiva”, che di sera aggiungeva le immagini alla semplice radiocronaca pomeridiana di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che immancabilmente si concludeva con lo spot pubblicitario: “Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock; se la squadra del vostro cuore ha perso, consolatevi con Stock. Stock 84, il signore si che se ne intende”; con la tribuna politica diretta da Jader Iacobelli.
Ricordo che il locale al chiuso del cinema di don Salvatore Castiglione, per tutto l’inverno e parte della primavera, a mezzogiorno, funzionava come mensa scolastica per gli alunni delle famiglie bisognose di Acate, mensa da tutti conosciuta come “la refezione”; di sera, diventava sala cinematografica al coperto; per tutta l’estate e parte dell’autunno, per mezzo di uno schermo gigante in pietra, intonacato di bianco e innalzato nella palestra all’aperto attigua alle Scuole elementari e al Collegio delle suore, si trasformava in Arena Castiglione.
Il cinema di don Salvatore Castiglione, il cine-teatro Eden del commendatore Morale e l’Arena argentina dell’ingegnere Traina
riempirono i miei spazi vuoti serotini degli Anni Cinquanta e Sessanta. E io non dimenticherò mai una sera dell’estate del 1962, quando venne proiettato “Il pozzo e il pendolo”, un film del 1961, diretto da Roger Corman e tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
Nel silenzio dell’oscurità, tutto preso dalle scene del film, un vero classico del terrore e dell’orrore, mentre una mano insanguinata spuntava da una tomba, spostando lentamente la lastra di pietra che la ricopriva, per la paura e per l’emozione, accesi maldestramente una nazionale esportazione dalla parte del filtro e cominciai a tossire fortemente e ininterrottamente. Ad un certo punto, nel silenzio, rotto soltanto dai colpi di tosse, si levò una voce acida e risentita: “A ci ni sunu miegghiu di tia o spitali!”, che trasformò un ambiente attentissimo alla visione e all’ascolto in un luogo di bassa ilarità e di rumorose flatulenze.
A partire però dalla proiezione di film di un certo spessore culturale quali “West side story”, “Scandalo al sole”, “I due volti della vendetta”, “I magnifici sette”, “Assassinio sul treno”, il cinema Morale attrasse come una calamita il gruppo di amici che si era costituito attorno a Pippo Puglisi, a Rosario Manusia, a Gigi Albani, a Carmelo Pinnavaria (Dollar Man), quest’ultimo da tutti chiamato “il professore”, perché, fin dalle prime sequenze di un film giallo, indovinava chi fosse l’assassino.
Il gruppo era attratto soprattutto dal film del giovedì, quasi sempre un giallo, che i fratelli Morale non facevano mai mancare in quel giorno settimanale, anche se (come spesso accadeva) lavorassero per niente, essendo equivalenti per loro la spesa e il ricavo.
Il gruppo evitava (con la mia sola eccezione), le proiezioni della domenica, seguite da vere e proprie fiumane di persone di tutte le età che, per almeno quattro ore di seguito, seguivano il cinegiornale della settimana Incom, le reclame, il primo e il secondo film, spizzicando simenta e calacavisi, e ruminando fave abbrustolite e pastiglie secche, infine raschiando la gola con bottiglie di gassosa e dissetanti caramelle carrubba.
In seguito avrebbe preso piede ad Acate il cinema del professore Vincenzo Lantino, con elegante galleria e accogliente tribuna, ma io potei apprezzare poco sia la bellezza del locale, sia i film che vi si proiettavano.
L’iscrizione all’Università di magistero di Catania mi allontanò a poco a poco, ventenne, dalle sale cinematografiche di Acate; come la frequenza dell’istituto magistrale mi aveva già allontanato, ancora quattordicenne, dal campo di calcio, in cui non avevo intravisto alcun futuro.
Rimaneva la televisione, che, dopo preadolescianziali entusiasmi, cominciai a trascurare, considerandola una monotona trasmissione di programmi e notizie, che spersonalizzavano lo spettatore conformandolo alla piattaforma ideologica del potere. Buona, comunque, per pappagalli politici e professoricchi ripetitori, che comunicavano, nella loro rampante ascesa, concetti e nozioni sulla scia del manovratore di turno rosso bianco o nero.

Antonio Cammarana

“Fu il tempo degli assassini”. 15 aprile 1944. 70° anniversario della morte del filosofo Giovanni Gentile

Giovanni Gentile
Nel novembre del 1967 (Anno Accademico 1967-1968), aprendo il Primo Corso di “Storia della filosofia”, fondato sulla vita e sulle opere del filosofo di Castelvetrano, il Prof. Domenico d’Orsi, ad una attentissima platea di studenti, nella seconda aula grande (oltre seicento posti a sedere) dell’Istituto Universitario di magistero di Catania, diceva:
-“Oggi cominciamo un discorso documentatissimo su Giovanni Gentile filosofo, pedagogista, educatore, autore della Riforma della scuola che porta il suo nome, ideatore animatore costruttore e direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana Treccani, il miglior ministro della Pubblica Istruzione che l’Italia abbia avuto e abbia a tutt’oggi.
Assassinato il 15 aprile del 1944 da unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.)”.
Non ho dimenticato la fortissima impressione che mi fecero quelle parole, che da allora mi porto appresso senza cessare di ricordare, perché quella di Giovanni Gentile, è stata, assieme a quella di Benedetto Croce, la figura più rappresentativa del mondo della cultura italiana nella prima metà del Ventesimo secolo.
Né ho smesso di chiedermi se i motivi politici, che hanno portato alla
morte del filosofo di Castelvetrano, possono essere addotti a giustificazione dell’assassinio di una persona armata soltanto della forza della sua concezione della vita e del mondo, crimine di cui la stampa clandestina comunista e paracomunista si gloriò, quando il destino della Repubblica Sociale Italiana era ormai segnato.
Ho sempre dichiarato che nessun assassinio può trovare una giustificazione, nemmeno per motivi politici. Ma una giustificazione la trovò, nel 1944, Concetto Marchesi, prima professore (dal 1923) all’Università di Padova, poi Rettore (dal 1943) dello stesso Ateneo, autore di una ormai classica e credo insuperata “Storia della letteratura latina “(1925, 1927) in due volumi, scrivendo:
-“Quanti oggi invitano alla concordia sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti invitano oggi alla tregua vogliono disarmare i patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti, perché consumino i loro crimini.
La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, l’ultimo traditore fascista non sia stato sterminato.
Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!”.
Che cosa aveva fatto e che cosa aveva scritto il filosofo Giovanni Gentile per meritarsi la sentenza di morte emessa da una fantomatica giustizia del popolo e soprattutto da un fantomatico popolo, se fino al 25 aprile del 1945 la grande maggioranza degli Italiani preferì non compromettersi con nessuna delle due parte in lotta – come scrive Gianni Oliva ne “L’Italia del silenzio”-, restando indifferente a guardare gli uomini della Repubblica Sociale Italiana e gli uomini della Resistenza, che si scannavano a vicenda e aspettando il giorno in cui gli Alleati avrebbero definitivamente sopraffatto le Forze Armate Tedesche in Italia e in Europa?
Giovanni Gentile aveva ripreso il suo posto di combattimento, in prima linea, senza avere paura di coloro che minacciavano e uccidevano a tradimento. Soprattutto aveva ripreso a scrivere.
Per l’Italia. Dal “Discorso agli Italiani” (In Campidoglio, 24 giugno 1943) a “Ricostruire” (Corriere della sera, 28 dicembre 1943), a “Ripresa” (Nuova Antologia, I Gennaio 1944) a “Questione morale” (Italia e Civiltà, 18 gennaio 1944) a “Giambattista Vico nel secondo centenario della morte” (Firenze, 19 marzo 1944), a “Il sofisma dei prudenti” (Civiltà fascista, aprile 1944) via via maturano le parole che, una volta ancora, riaffermano il suo coraggio e la sua consapevolezza di andare incontro ad un destino di morte:
-“Oh, per quest’Italia noi ormai vecchi siamo vissuti: di essa abbiamo
parlato sempre ai giovani, accertandoli ch’essa c’è stata sempre nelle
menti e nei cuori; e c’è, immortale. Per essa, se occorre, vogliamo morire; perché senza di essa non sapremo che farci dei rottami del miserabile naufragio; come già non ci regge più il cuore a cercare, in quell’ombra vagolante, tra le imprecazioni del popolo tradito e i sorrisi ironici o i disegni altezzosi dello straniero, il nostro Re, che fu già in cima ai nostri pensieri, perché ai nostri occhi incarnava nella sua persona la Patria, che non avremmo mai sospettato potesse proprio da lui essere consegnata al nemico” (Dichiarazione premessa alla Commemorazione del secondo centenario vichiano).
Per l’Italia Giovanni Gentile morì assassinato, dentro l’automobile che il 15 aprile del 1944, verso le tredici e trenta, l’aveva portato a Villa Montalto nel quartiere Salviatino, da quattro unità di un Gruppo di Azione Patriottica (G.A.P.) i cui nomi, secondo quanto si evince dalla lettura de “La sentenza” di Luciano Canfora, sono: Bruno Fanciullacci, “esecutore materiale dell’uccisione” del filosofo di Castelvetrano; Giuseppe Martini; Luciano Suisola; Marcello Serni.
A Bruno Fanciullacci, morto in seguito ad un tentativo di fuga, dopo l’arresto e l’interrogatorio (certamente condotto con mano pesante) da parte dei membri della Banda Carità, è stata conferita la medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria; il comune di Pontassieve (Firenze) ha intitolato una via a suo nome; il comune di Firenze gli ha dedicato lo slargo di Villa Triste.
Per quanto riguarda i mandanti “manca tuttora una versione per così dire ufficiale del P.C.I. (diventato PDS, DS, PD aggiungo io) sul caso Gentile.
Unica costante sinora – in tanto variare di successive e provvisorie verità provenienti dalla forza politica che esercitò il maggior peso in quella operazione – il ricorso al nome di Marchesi ed al suo celebre scritto. Non c’è rievocazione dell’attentato che non riproduca ogni volta per intero quello scritto: come autorevole avallo, o come alibi morale, o come esplicita sentenza di morte” (Luciano Canfora, La Sentenza, Sellerio Editore Palermo, 1985, pag. 298).
Riprendendo tra le mani la “Storia della letteratura Latina” del Prof. Concetto Marchesi mi sembra ormai di tenere tra le mani un ripugnante e grottesco fiore, rosso del sangue dell’innocente vegliardo e mentore della filosofia e della cultura italiana tra le due guerre mondiali.
Leggendo le pagine di “Genesi e struttura della società”, l’ultima opera di Giovanni Gentile, pubblicata postuma nel 1947, non posso fare a meno di fermare la mia attenzione su ” La Società Trascendentale, la Morte e l’Immortalità”, che mi ha permesso di coniare la frase, che mi ha sempre aiutato a vivere a scrivere e ad insegnare: E l’uomo supera la morte nell’immortalità del pensiero che pensa; e pensando e scrivendo è creatore di opere: muore l’uomo (mortale), rimangono le sue opere (immortali).
Il tempo degli assassini ebbe facile gioco sul settantenne filosofo di Castelvetrano, che si muoveva senza scorta, arditamente, guidato dalla forza e dalla coerenza delle sue idee (“Per quest’Italia, se occorre, vogliamo morire”), che non conobbero né il sofisma dei prudenti, né il trarsi indietro, né il cambiar casacca nell’ora più difficile della sua vita: l’Ora della prova.
Ed io ricorderò ancora – come fosse oggi, come sarà sempre – il fortissimo turbamento determinato dalla parola del professore Domenico D’Orsi, nella vasta e commossa platea di noi studenti, in quel lontano novembre del 1967. Parola a cui non affianco nessun aggettivo per cercare di qualificarla meglio, perché qualsiasi aggettivo ne sminuirebbe la carica e il pathos.
“Il 10 gennaio 2000 Achille Totaro, che all’epoca era consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Firenze, durante una seduta del consiglio comunale, commentando l’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta nel 1944, dichiarò: – Bruno Fanciullacci fu un assassino. Ha ammazzato un filosofo di 70 anni. Gentile venne colpito mentre era indifeso. Non fu un’azione di guerra, ma l’opera di un vigliacco. Un assassino vigliacco -. L’ANPI e la sorella di Fanciullacci denunciarono Totaro per diffamazione e gli altri consiglieri comunali che avevano firmato un appello di sostegno.
Tutti gli imputati furono processati ed assolti nel 2007. Infatti, secondo il giudice Giacomo Rocchi, le opinioni espresse da Totaro ” sono sì aspre, ma adeguate alla gravità del fatto”. L’accusa decise di appellarsi e nel nuovo processo gli imputati furono condannati al risarcimento morale dei danni e a pagare le spese processuali, mentre l’accusa di diffamazione fu considerata ormai prescritta. Anche se la condanna fu completamente simbolica, essendo i danni morali quantificati nella somma di un solo euro, Totaro e gli altri coimputati ricorsero ugualmente in Cassazione venendo quindi assolti nel 2010, ” perché il fatto non costituisce reato” (Wikipedia, l’Enciclopedia Libera, Bruno Fanciullacci, pag.2).
E questo a me basta per concludere che il tempo degli assassini si ritorce (si ritorcerà sempre) sullo stesso assassino e sul mandante o sui mandanti di quel crimine efferato, che il Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana nel 1944 disapprovò con la sola esclusione del Partito Comunista Italiano.

Antonio Cammarana

Il signor “Capizzo”

Il signor Capizzo
Ero fermo davanti alla porta della sala da barba di zio Giovanni, in una giornata di tiepido sole primaverile del 1960, al numero 119 di Corso Indipendenza, e sgranocchiavo una melagrana dai chicchi rosso amaranto, allorché dalla via Gracchi spuntò un uomo alto e robusto, che calzava un paio di stivali di cuoio, indossando giacca e pantaloni di fustagno. Quando mi arrivò vicino, con i suoi capelli e baffi biondo oro rossiccio, mi parve davvero un vichingo o uomo del Nord uscito dalle brume e dai fiordi della Norvegia.
Rivolgendosi a me zio Giovanni disse:
-“Puntuale come sempre, il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- precisò quello che ritenevo un vichingo.
-“Capizzi”- ripetei io allo zio.
-“Capizzo”- ribatté lui.
Il vichingo sedette nel seggiolone di legno, facendo sgonfiare il cuscino sotto le sue natiche, mentre da lui zio attendeva “comandi”, che non si fecero attendere: shampoo, capelli e barba.
Zio riscaldò l’acqua, sciacquò e asciugò la folta capigliatura del vichingo, continuò con il taglio dei capelli e terminò con la rasatura della barba, mentre agitava – per farne cadere a terra i peli, di cui era piena a macchia di leopardo – l’ampia tovaglia tolta dal collo del cliente:
-“Servito signor Capizzo”.
-“Capizzi”- precisò l’uomo.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio, prendendo in mano le monete per il servizio
prestato.
Il signore, un pò meno vichingo e un pò più cristiano dopo il lavoro dello zio, uscì dalla sala da barba, mentre zio Giovanni – facendo saltare le monete ricevute- diceva:
-“Sempre generoso il signor Capizzo”-.
-“Capizzi”- osservai io.
-“Capizzo”- ripeté zio con un tono di voce, che non ammetteva repliche.
Poi, mettendomi in mano due monete da cento lire, ordinò:
-“Vai a prendermi un pacchetto di nazionali”-.
A passi svelti mi diressi verso il tabaccaio, ma, arrivato all’angolo di Corso Indipendenza con via XX Settembre, mi accorsi che il signore di prima entrava al bar Roma, gli sentii chiedere alla signora Delizia un tubetto di monete da cinquanta lire, lo vidi avvicinarsi alla grande vasca rettangolare di cristallo con il fondo pieno di pacchetti di sigarette estere ( Salem, Chesterfield, North Pole, Pall Mall, Camel, Marlboro, un mare di pacchetti di sigarette estere).
Quando gli arrivai vicino, il vichingo cominciò a inserire le monete da
cinquanta lire in una fessura della grande vasca, premendo poi un bottone che faceva andare prima in avanti, in seguito a destra una mano d’acciaio meccanica che catturava o soltanto accarezzava i pacchetti di sigarette.
Dieci minuti dopo, con un pacchetto di Pall Mall in una mano e uno di Chesterfield nell’altra, sorridendo compiaciuto sotto i baffi di uomo del Nord, il vichingo tornò alla cassa e cambiò il pacchetto di Pall Mall con denaro contante, tenendo le Chesterfield.
-“Ecco nove monete da cinquanta lire, signor Capizzo”- disse la signora Delizia.
-“Capizzi”- osservò lui.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse la padrona del bar.
Poi rivolgendosi a me:
-“Tu che cosa vuoi ?”-.
-” Un bicchiere d’acqua”-.
-“Alla fontanella !”- gridò lei, indispettita.
Io andai a comprare le nazionali per lo zio, sigarette senza filtro molto plebee in verità rispetto a quelle che avevo visto prima al bar Roma e feci ritorno nella sala da barba. Qui vidi il signore conosciuto in precedenza offrire una Chesterfield allo zio, che l’accarezzò e l’annusò parecchie volte prima di accenderla e aspirarla, alla fine dicendomi:
-“Che grand’uomo il signor Capizzo !”-.
-“Capizzi”- precisò il signore.
-“Capizzi”- ripetei io.
-“Capizzo”- concluse zio.
E, mentre quel vichingo tanto generoso si allontanava sorridendo e scuotendo la testa, io pensavo:
-“Capizzo o Capizzi ? Capizzi o Capizzo? Oppure Capizzo dei Capizzi
come Albrizzo degli Albrizzi – marchese fiorentino del tempo di Dante; o Rubizzo dei Rubizzi – conte senese del tempo del Petrarca? Che sotto il Capizzo o il Capizzi si nasconda un nobiluomo venuto al seguito del normanno Ruggero d’Altavilla e da questi del titolo di barone di Capizzi, per nobili gesta contro i Saraceni di Sicilia, insignito? Per non parlare del portamento così aristocratico, del pelame oro rossiccio proprio della gente del Nord, che tolse la Sicilia agli Arabi “-. Deve andare così ! Che Capizzo sia Capizzi per i notabili del paese, Capizzi sia Capizzo per la gente del popolo.

Antonio Cammarana

Una pagina di storia: la nascita del sindacato nazionale fascista dei “Massari”

Avvocato Bellomo
Il 24 maggio del 1925, nella sede di via XX Settembre, in seduta straordinaria e in seconda convocazione alle ore 20 ( la prima convocazione ore 18), si riunisce l’Assemblea dei Soci del Circolo della Borghesia per trattare, come ordine del giorno,” la costituzione in sindacato fascista” del Sodalizio. Relatore è l’avvocato Vincenzo Bellomo, Direttore del Circolo, il cui discorso si snoda in due parti.
Nella prima non mancano periodi paludati da una retorica declamatoria, enfatica e patriottarda, nella seconda la retorica cede sensibilmente terreno ad una più realistica presentazione degli accadimenti storici, politici e sindacali relativi agli anni che vanno dal 1919 al 1925. Nella prima parte l’avvocato Bellomo dichiara che è “grande ventura”, per lui, Direttore del Circolo della Borghesia di Biscari, “raccogliere ancora una volta”, nella “fausta ricorrenza del decimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (la Prima Guerra Mondiale)”, il “giuramento incorruttibile di fede e di devozione agli uomini preposti alla tutela dei sacri diritti della Patria”; precisa che il 24 Maggio del 1915 “la giovinezza italica”, per correre a combattere “contro le tirannidi imperiali in difesa dei popoli oppressi”, non esitò un istante ad abbandonare “le scuole, le officine, i campi”; evidenzia che “il millenovecentodiciannove” fu “una pagina nera sinistra della storia politica italiana”, perché trionfò “la demagogia mostruosa”, che ubriacò “le masse dei lavoratori italiani, mettendoli gli uni contro gli altri allo scopo di realizzare, in Italia, quello che i soviet avevano fatto in Russia: il trionfo del comunismo”; mette l’accento sul ruolo di Benito Mussolini, che, “in una Piazza di Milano, aveva sparato il primo colpo contro il mostro bolscevico, togliendo gli Italiani dall’abisso in cui stavano precipitando e ricevendo da essi il giuramento di fedeltà”.
Nella seconda parte l’avvocato Bellomo spiega che “l’Istituto parlamentare italiano, nel lontano passato, ebbe innegabilmente una funzione di altissimo prestigio, ma in seguito si ridusse – prima dell’avvento fascista – in una decorativa palestra di vana eloquenza e in un indecente locale di disonorati turpiloqui e di più umilianti pugilati!”.
La rivoluzione fascista non fece solo giustizia di tutto ciò, ma cominciò a realizzare la riforma della burocrazia, della pubblica istruzione, dell’esercito, della marina, della milizia, la sicurezza all’interno e all’estero, i trattati di commercio, la valorizzazione di Vittorio Veneto.
“Ma la più bella, la più importante manifestazione del fenomeno fascista fu, senza dubbio, il grande movimento sindacale, che trionfalmente compie il suo inevitabile destino”.
Capitale e lavoro – come afferma Edmondo Rossoni – non sono “due termini irriducibilmente contrastanti e antitetici, ma due fattori concomitanti connessi ed omogenei; essi percorrono la stessa strada, vogliono lo stesso obiettivo: l’aumento, cioè, della produzione”. Non solo.
“Alla implacabile lotta di classe il fascismo redentore oppose la collaborazione delle classi”, quella che viene chiamata “la pace feconda tra il lavoratore e il datore di lavoro”.
Cessino, dunque, “gli odi di parte, le passioni morbose che ci immiseriscono e ci disonorano, si ravvedano i tristi e i traviati, e la parola di pace e di amore del nostro Duce avvinca tutto il popolo italiano in un indissolubile abbraccio fecondo di prosperità e di benessere, sentendo, come nelle gloriose giornate di Vittorio Veneto, l’orgoglio di essere italiani, veramente italiani!”.
Così sono descritti, nel verbale della seduta, i momenti che seguono la conclusione dell’avvocato Vincenzo Bellomo:
“Un frenetico lungo applauso accoglie il discorso del Direttore, avvocato Bellomo, e l’Assemblea, ad unanimità e per acclamazione, vota l’oggetto segnato all’ordine del giorno. In seguito a tale votazione il Circolo degli Agricoltori di Biscari (già Borghesia) si costituisce in Sindacato Nazionale Fascista dei Massari e affida allo stesso Direttore Avvocato Bellomo l’incarico di procedere, visti gli atti e le formalità inerenti, al Riconoscimento Ufficiale da parte delle Autorità Gerarchiche Sindacali, nonché al tesseramento obbligatorio per tutti i soci, ai quali si assegna un periodo di tempo massimo di giorni 25 per provvedere alla iscrizione e alla tassazione personale”.
Correttezza storica impone i seguenti rilievi:
– il verbale della seduta, a me non esperto calligrafo, pare che sia stato scritto per intero dallo stesso Direttore del Circolo della Borghesia, che aveva fatto la relazione;
– nel verbale non si fa riferimento alla convocazione dei soci mediante lettera, né all’esposizione della bandiera alla porta;
– nel verbale c’è la firma del Segretario Catania Giuseppe di Biagio e del Direttore Avvocato Vincenzo Bellomo, ma non del Presidente Guardabasso Gaetano fu Vincenzo;
– quelli della mia generazione ricordano questa comunità di uomini – che il lavoro dei campi, nel corso dei decenni, ha logorato o ha irrobustito, ma in ogni caso ha affratellato – non con la denominazione di Circolo della Borghesia o Circolo Agricolo, ma con il nome di ” Società dei Massari”, con l’accezione del termine “massaro”, intendendo non solo il piccolo o medio proprietario terriero, ma anche il gabellotto o mezzadro. In ogni caso il lavoratore di terre sue o di terre sulle quali ha dovere di lavoro e diritto di guadagno, non essendo né il semplice contadino o il semplice bracciante, che, faticando in una campagna non sua riceve una paga settimanale o giornaliera;
– non esistono documenti validi successivi, che possano illuminare la vita del Sodalizio a partire dal 1927 fino al 1942, per cui questo quindicennio di storia dell’Associazione rimane in ombra. A meno che lumi non vengano dai registri delle Amministrazioni Comunali di Acate o da altro materiale in possesso di Enti o di privati cittadini;
– la nascita del Sindacato Nazionale Fascista dei Massari a Biscari, come in tanti altri centri, fu possibile perché, in campo nazionale, Benito Mussolini poté superare indenne tutte le conseguenze politiche e morali del delitto del deputato socialista Giacomo Matteotti, grazie al coraggio e all’appoggio di Roberto Farinacci, che rappresentò il volto autentico del fascismo rivoluzionario, quello che non si venderà al Grande Capitale, né verrà a patti con la Monarchia dei Savoia. All’epoca della crisi del 1924 Benito Mussolini se ne stava “all’interno del Palazzo” intontito e paralizzato dagli avvenimenti, non sapendo quali pesci pigliare e rischiando la distruzione di sette anni di dura lotta contro il socialcomunismo, nonché la perdita stessa del potere. Il Duce fu salvato dal colpo di mano “dei trentatré consoli della Milizia, che il giorno dell’ultimo dell’anno 1924 – armi in pugno – fecero irruzione nel suo studio di Capo del Governo per obbligarlo a rompere gli indugi e a riprendere, con decisione, l’iniziativa politica”, che rischiava di sfuggire al suo controllo. Tale pronunciamento delle “camicie nere della prima ora” svegliò Mussolini dal torpore e dall’inazione in cui era caduto, facendogli preparare il discorso tenuto alla Camera dei Deputati il 3 gennaio del 1925 con il quale giustificò le azioni squadristiche e se ne assunse la responsabilità: “Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto in Italia”.
Secondo me, questo è il momento – l’ultimo momento, prima che gli ideali politici e sociali del fascismo venissero traditi – del fascismo rivoluzionario, che aveva il suo leader riconosciuto e incontrastato in Roberto Farinacci, da cui il Sindacalismo Fascista ricevette la massima spinta per piegare, prima del compromesso o, il che è lo stesso, della sconfitta, il Grande Capitale alle esigenze sociali del Sindacalismo Corporativo con il suo teorico di punta Edmondo Rossoni.

Antonio Cammarana

Il nano

nano
Sono alto due spanne: non un centimetro di più, non uno di meno. Io sono il nano.
Le mie gambe sono corte come pure le mie braccia, esiguo ho il torace, insignificante il collo, piccola la testa, i miei piedi non superano quelli di un bambino.
Io sono il nano.
Ma rugosa è la mia faccia, tumide sono le mie labbra, ho larghe orecchie e grandi occhi.
Io sono il nano.
Come nature diverse dalla mia io guardo gli uomini, le donne, i ragazzi, considerandomi essi un errore divino tenace nei secoli e non meno perverso di un campo di sterminio.
Io sono il nano.
Asprezze e solitudini ha avuto sempre la mia vita. Imperatori e re, principi e duchi, conti baroni e marchesi, mi hanno fatto buffone di corte; la letteratura mi ha dileggiato come fenomeno da circo; la scienza mi ha esibito come meraviglia mostruosa o ingannevole referto.
Mentre il buffone è stato un “full” di comicità, io sono stato un “minus” da baraccone. E già Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, aveva fatto di me un simbolo della doppiezza e della menzogna con la figura di Ulisse: guerriero di bassa statura, che arriva appena alla spalla di Agamennone e a quella di Menelao; per nulla gagliardo come Aiace, né forte come Achille; ma dotato soltanto di una astuzia così grande che nessuno è più furbo di lui nell’ingannare la gente. Nemmeno Alberico, il re dei nani vinto dall’eroe Sigfrido, nel poema nazionale germanico “La Leggenda dei Nibelunghi”.
Io sono il nano.
Quando venni al mondo i miei genitori dichiararono: -“Questo figlio, che abbiamo generato, è un protocollo del nulla”- .
Io sono il nano.
In seguito alla morte di mio padre sono cresciuto di una spanna.
Dopo il decesso di mia madre ho raggiunto l’altezza di ottanta centimetri.
Ma io resto il nano, perché credo di essere stato generato da un destino di pochezza fisica.
I miei fratelli ripetono che io crescerò di una spanna ogni volta che uno di loro passerà a miglior vita. E con queste parole mi feriscono in tutte le ore del giorno. Perché essi sono alti e robusti tanto da credere di campare cent’anni.
Io ho dieci fratelli.
Io sono il nano, ma voglio crescere.
Mi sono messo al lavoro per punire la cattiveria dei fratelli, per distruggere la diceria dell’errore divino e la nomea di figlio di un destino di pochezza fisica, per fare del protocollo del nulla che sono un protocollo dell’essere.
Io, il nano, che vuole crescere.
Io metto, in ogni pasto di mezzogiorno dei miei fratelli, un milligrammo di veleno per topi. E, quando essi saranno morti tutti, io sarò più alto di altre dieci spanne. Così eguaglierò in altezza il gigante Golia.
Io, il nano, errore divino, figlio di un destino di pochezza fisica e protocollo del nulla.

Antonio Cammarana

Il Gobbo. Racconto a due voci

Il Gobbo
Prima voce
Quadrata è la mia testa, un cerchio è il mio collo, ho il tronco a trapezio, due cilindri sono le mie gambe, due triangoli i miei piedi.
Sono davvero deforme.
Non solo.
Alto un metro appena, mi considero meno di un uomo. E mi riterrei il più sfortunato dei mortali, se madre natura non mi avesse fatto nascere con una gobba sulle spalle. Che mi fa essere più di un nano.
Vanto illustri antenati, resi immortali dalla letteratura. Un solo esempio valga per tutti: Quasimodo, il gobbo di Notre Dame de Paris: naso tetraedico, bocca a ferro di cavallo, occhiuzzo sinistro coperto da un sopracciglio rosso e cespuglioso, occhio destro nascosto dietro un’enorme verruca, denti sbrecciati come i merli di una fortezza, labbro carnoso, mento forcuto.
Ma se Quasimodo è un misto di malizia, di stupore e di tristezza, io sono un insieme di bontà, di indifferenza e di allegria. Se Quasimodo è il re dei folli, io sono il re dei saggi.
Perché: quando un uomo una donna un ragazzo vogliono toccare la mia gobba, convinti che ciò porterà loro fortuna, io li lascio fare a patto che comprino la mia frutta e la mia verdura.
Io, il gobbo, prototipo della deformità e venditore ambulante.

Seconda voce:
Io ricordo bene coloro che hanno accarezzato la gobba: uno ha perduto un dito, un altro una mano, un altro è diventato storpio, a qualcuno manca un occhio, a qualcun altro una parte del naso o delle labbra. E ognuno di loro ha la testa profondamente piegata sul petto: il loro essere spirituale e fisico è venuto meno a poco a poco, riducendosi ad icona della deformità.
Io li riconosco tutti, perché, da quando ho perduto entrambi i genitori, lui, il gobbo, mi porta sempre con sé per strade e paesi a vendere frutta e verdura con un carro a quattro ruote.

Antonio Cammarana

“Obiettivo Biscari”. Il saggio di Anfora e Pepi presentato da Antonio Cammarana alla Società Operaia

Obiettivo Biscari
Sabato 30 novembre, nei locali dello storico sodalizio, “Società Operaia di Mutuo Soccorso ” di Acate, fondato nel 1869, ho avuto l’onore di presentare il saggio storico “Obiettivo Biscari: 9-14 luglio 1943. Dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504” di Domenico Anfora e Stefano Pepi, pubblicato dalla Casa Editrice Mursia di Milano, “che sta compiendo un lavoro egregio di analisi dei fatti realmente accaduti durante l’invasione alleata”;
segnalato e recensito da diverse testate giornalistiche da “La Sicilia” al “Giornale di Sicilia”, da “Libero” al “Giornale”, da “Il Fatto Quotidiano” a “La Repubblica” a “Rinascita”, a “Il Secolo d’Italia”, al “The Times” di Londra.
In qualità di coordinatore della serata ho evidenziato che il volume ha meriti e punti di forza: ci accompagna a rivivere i luoghi, i volti, le vicende drammatiche, gli scontri cruenti; mette in risalto che, tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943, “si scatenò una sanguinosa battaglia nel triangolo di Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate”; ci offre una documentazione storica attendibile che – oltre alle uccisioni di prigionieri di guerra e di civili che, già conosciamo da precedenti pubblicazioni – fa luce sulla strage dei Carabinieri compiuta dagli Americani a Passo di Piazza e sulla strage di militari italiani e tedeschi compiuta sempre dagli Americani all’Aeroporto di Comiso; si fregia, inoltre, dell’autorevole Prefazione del Tenente Colonnello, Dottor Giovanni Iacono, il quale definisce il libro “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia del luglio-agosto 1943”.
Ho dato, poi, la parola al Presidente Saverio Caruso, che si è detto orgoglioso di ospitare un evento di così notevole interesse culturale.
“L’invasione del territorio di Acate da parte delle truppe americane – ha riferito – l’ho vissuta da testimone oculare, anche se all’epoca avevo circa 9 anni. Mi ricordo delle bombe sganciate nel paese e delle violente esplosioni che provocarono diversi morti e feriti, generando grande panico tra la popolazione. Sono più che convinto che il bombardamento fu effettuato per la presenza di due camion tedeschi fermi nella strada principale del paese, tra via XX Settembre e via Roma”.
A seguire l’intervento del Sindaco Franco Raffo, il quale si è complimentato con gli autori del libro per aver fornito ancora un frammento di storia e di vita della nostra cittadina nelle atrocità della guerra.
Il Tenente Colonnello Giovanni Iacono, poi, si è soffermato sugli scontri che hanno avuto luogo “nelle vicinanze del bivio di Biscari, lungo la Statale 115, in località Biazzo; e nella “mossa a tenaglia” di “due battaglioni verso Biscari, uno da Sud, cioè dalla strada che va verso la SS 115, ed un altro da Est, proveniente da Vittoria e che si trovava già attestata nella zona di Monte Calvo”, da dove “bombardava il paese credendolo presidiato dalle truppe tedesche, che in realtà si ritiravano verso Caltagirone”, dopo avere lasciato “tra le retroguardie un carro armato Tigre, che muoveva lungo Corso Indipendenza e che sparava sia verso gli Americani provenienti dalla SS 115, sia verso quelli provenienti da Vittoria. Forse a salvare Biscari dai bombardamenti americani furono alcuni coraggiosi cittadini che andarono incontro al Gen. Mc Lain, che stava comandando l’attacco, il sig. Luigi Fidone, discreto conoscitore della lingua inglese, il calzolaio Giovanni Gallo ed il giovane sacerdote Biagio Mezzasalma. Questi, a rischio della propria vita, s’incamminarono verso la chianata a Serra, che corrisponde dove c’è la rotonda andando per Vittoria, venendo fermati dagli Americani ai quali comunicarono che dentro il paese erano rimasti solo pochissimi tedeschi e che erano in fase di ritirata. Li pregarono di smettere quindi il bombardamento del paese. Non fidandosi gli Americani li fecero salire su una Jeep e li tennero come ostaggi, mentre le compagnie si avviavano verso il centro abitato. Vi furono delle scaramucce contro gli ultimi soldati tedeschi che si erano attardati nella ritirata, ma alle venti Biscari era in mano americana”.
Tra i presenti anche il signor Cesare Pompilio, che ha rievocato, con viva commozione, con la sua testimonianza diretta di ragazzino di 9 anni, episodi di guerra che offrivano uno spettacolo allucinante, di morti orrendamente mutilati tra grida e lamenti dei sopravvissuti. Purtroppo non mancò, tra tanto disastro, chi cercò di approfittare della situazione con indegni atti di sciacallaggio, tra le rovine delle case bombardate o abbandonate, alla ricerca di denaro e di effetti personali.  Il volume, ha affermato Stefano Pepi nel suo intervento, è nato per caso, quando davanti al casale di sua proprietà, nel territorio di Vittoria, in località Casazza, vede aggirarsi Domenico Anfora attratto da alcuni particolari (presenza di varie feritoie rivolte verso la strada) e da una iscrizione su “un capitello di una delle entrate di destra sul quale vi era inciso 179° U.S.”, che gli destano curiosità.
Dopo un primo malinteso e lo scambio di reciproci chiarimenti, tra i due nasce una forte sinergia. E’ l’inizio di una grande amicizia e di una valida collaborazione tra la consolidata esperienza di serio ricercatore storico vizzinese e ” l’uomo entusiasta col fiuto dell’investigatore”. Un unico denominatore comune: la passione per la ricerca storica sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e l’amore per la verità. Da qui i motivi che hanno spinto Domenico Anfora e Stefano Pepi a cimentarsi in un “lavoro di ricerca, d’indagine, di studio sulla battaglia di Biscari, che insanguinò il territorio compreso tra Acate, Niscemi, Ponte Dirillo, Vittoria”. Una impresa entusiasmante e interessante – aggiunge Domenico Anfora nel suo intervento – che nasce “sul campo”, ispezionando luoghi, consultando archivi, interagendo con le cronache del tempo, ricercando documenti inediti, intervistando testimoni. Indimenticabile l’incontro con Riccardo Mangano, pronipote del Podestà di Acate, Giuseppe Mangano, che insieme al figlio Valerio e al fratello Tenente Medico Ernesto, fu vittima di una strage perpetrata dagli Americani a Vittoria.

Antonio Cammarana

I Crimini di guerra americani nei primi giorni dell’operazione Husky. Compendio.

Compendio
Tanti, forti e profondi dovettero essere i sentimenti provati dal nemico invasore, da coloro che difesero la loro terra, e dalla popolazione civile che assistette agli scontri e che ne patì le conseguenze nei primi sei giorni dell’Operazione Husky (“cane da slitta” il nome in codice) nel settore delle truppe del generale George J. Patton (Licata, Gela, Macconi, Ponte Dirillo, Acate, Scoglitti, Vittoria).
Innanzitutto la tensione e la paura generate nell’animo di coloro che vissero l’attesa di entrare in azione in luoghi che non conoscevano o che conoscevano per averli visti soltanto in mappe approssimative e imprecise, fossero essi paracadutisti, soldati di fanteria, di artiglieria o di cavalleria corazzata.
Nel libro di Domenico Anfora e Stefano Pepi, “Obiettivo Biscari, 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’aeroporto 504” (Milano, Mursia, 2013), che il Tenente Colonnello dott. Giovanni Iacono considera “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia” (p.7), leggiamo le parole che descrivono lo stato d’animo dei paracadutisti americani in attesa di lanciarsi nel buio: “Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero” (Idem, p.43).
E possiamo soltanto immaginare con quanto stress si conviva scendendo dall’alto con il paracadute, per la prima volta in una zona di guerra, vedendo i compagni che stanno vicino colpiti in aria prima di prendere terra o catturati subito dopo aver preso contatto con il terreno o rompersi gli arti o la schiena nell’atterraggio o rimanere per lungo tempo isolati o in piccoli gruppi in un luogo sconosciuto, lontani dall’obiettivo e con il solo pensiero di congiungersi agli altri prima di incappare in una pattuglia nemica.
Sentimenti non dissimili a quelli dei paracadutisti vivono una parte degli uomini della “Thunderbirds”, la 45a Divisione di fanteria americana, che si trova su una nave in avvicinamento alla costa tra Scoglitti e Capo Sgalambro, in attesa di ricevere l’ordine di sbarcare: “I giovani e inesperti soldati dello zio Sam, quasi tutti coscritti, nell’oscurità inciampavano e imprecavano, mentre tastoni cercavano il corrimano e dondolavano abbrancati alle scale a corda sui fianchi delle navi beccheggianti nel mare mosso. Alcuni caddero mentre tentavano di scendere, infortunandosi seriamente. Un fante annegò”. (p. 66).
E ancora al largo di Capo Sgalambro e di Punta Braccetto, “sui mezzi da sbarco che giravano a cerchio a causa del mare grosso” (p.69) e “con la paura che oscurava la ragione e per la nausea” (Ibidem), le stesse emozioni vivevano i fanti che “vomitavano, pregavano e imprecavano, e vomitavano ancora” (Ibidem). E solo quando cominciò “il fuoco di sbarramento della flotta americana verso la costa siciliana, illuminandola al ritmo delle cannonate”(Ibidem), quei
soldati dimenticarono la nausea e “guardarono quelle scie di fuoco e quelle esplosioni con gli occhi sgranati e le dita nelle orecchie”(Ibidem).
Dal momento dello sbarco cominciarono a susseguirsi le esecuzioni sommarie di prigionieri militari disarmati e di civili inermi.
Le truppe americane della Cp “I” del 3°/505° , venute a contatto con il nemico, non avevano motivi validi per fucilare, o meglio per assassinare, i carabinieri che difendevano Passo di Piazza e che si arresero, dopo gli interventi dei cannoni navali della Marina Statunitense.
“In località Passo di Piazza, a Nord del Biviere e a Ovest del Ponte sul Dirillo, a presidio della linea ferroviaria, c’era un posto fisso dei Carabinieri forte di 15 uomini al comando del Vicebrigadiere Carmelo Pancucci. Il carabiniere Antonio Cianci, ventunenne di Stornara (FG), vedendo in avvicinamento un gruppo di soldati sconosciuti, fece fuoco abbattendone uno. Iniziò un conflitto a fuoco tra i carabinieri, armati di soli moschetti e asserragliati nella casa rurale, utilizzata come Caserma, e i paracadutisti americani che la circondavano.
L’intervento dei cannoni navali americani convinse il vicebrigadiere ad alzare bandiera bianca. Nel frattempo erano morti quattro carabinieri. I dodici, che si erano arresi, furono messi al muro e sottoposti a raffiche di mitra, che provocarono la morte di altri quattro militari italiani e il ferimento di uno. I sopravvissuti, tra i quali Pancucci e Cianci furono deportati in Algeria. Gli aggressori appartenevano probabilmente alla Cp “I”, lanciatasi sulla vicina contrada di Piano Lupo”(p.46).
Lo stress emotivo, il non potere dormire, la collera incontrollata causata dalla morte in combattimento dei compagni del Combact Team, una notte intera trascorsa dentro una trincea; l’assunzione di benzedrina “sia per attenuare i malori causati dalla terribile tempesta che aveva investito il Canale di Sicilia, sia per animare i soldati al loro battesimo del fuoco” (p.191); le parole del Generale Patton che incitano a non fare prigionieri, anzi a uccidere ( ” Kill, kill and kill some more”: “Uccidi, uccidi e uccidi ancora”) quelli che egli chiamava, con parole rimaste tristemente famose nella storia dell’esercito statunitense, “Beach of songs”, “Figli di puttana”, sono alla base di un altro aberrante crimine di guerra compiuto dal sergente Horace West . Il “sottoufficiale ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie, perché fossero interrogati dal Servizio Informazioni S-2 del reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati.
Spiegando che avrebbe ucciso quei figli di puttana, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani” (Carlo D’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, p. 255).
Ancora un altro crimine di guerra si consumava nello stesso giorno dagli “uomini della Cp “C” agli ordini del Capitano Jhon T. Compton”, che, “incontrando una dura resistenza nel settore Est dell’Aeroporto di Biscari, adirati per le perdite subite, fucilarono i 36 militari italiani catturati” (Anfora-Pepi, op. cit., p.185).
Il capitano Compton, “imputato di 36 omicidi, non cercò scuse”, dicendo, “davanti alla Corte Marziale”, che aveva obbedito all’ordine di Patton: “Giusto o sbagliato, l’ordine di un Generale a tre stelle, con una esperienza di combattimento, mi basta. Io l’ho eseguito alla lettera” (Idem, p.191).
“Ripugnante” è l’aggettivo di cui Carlo D’Este si serve per condannare ciò che definisce come “il primo incidente” dell’Operazione Husky, in realtà si tratta di due aberranti crimini di guerra compiuti da un ufficiale ( il Capitano Jhon T. Compton) e da un sottoufficiale (il sergente Horace West) del 180° reggimento della 45aDivisione di fanteria Thunderbird dell’Esercito degli Stati Uniti.
Questi crimini di guerra furono incoraggiati anche dalla “voce”, che circolava tra le truppe di terra della 45° Divisione, quando, nell’area compresa tra Acate, Santo Pietro e Piano Stella, si rinvennero a decine i corpi senza vita dei paracadutisti americani che si trovavano a bordo dei 23 Dakota abbattuti per errore dal fuoco amico della flotta.
La “voce” diceva che “gli italiani avessero aperto il fuoco sui parà prima di toccare terra, violando la Convenzione di Ginevra, o che addirittura avessero giustiziato anche quelli che si erano arresi. Queste voci, del tutto infondate, incoraggiarono comportamenti vessatori o addirittura criminali contro i prigionieri italiani” (Andrea Augello, Uccidi gli Italiani, Milano, Mursia, 2009, p.108 ).
Se si è riusciti a fare luce su questi avvenimenti lo si deve anche al prof. Vincenzo Castaldi di Varese, Docente di Storia e Filosofia, il quale “il 29 gennaio del lontano 1995” inviò “un esposto al Procuratore della Repubblica di Ragusa (copia del quale invierà successivamente anche al giornalista della Gazzetta del Sud Salvatore Cultraro per conoscenza), denunciando un eccidio avvenuto il 14 luglio del 1943 nei pressi dell’Aeroporto di Biscari” (Salvatore Cultraro, I ricercatori ignorati. I meriti del prof. Vincenzo Castaldi, Archivio AcateWeb, 15-11-2013 ).
In verità i crimini di guerra compiuti dal Capitano Compton e dal Sergente West non saranno i soli crimini dei primi sei giorni dell’Operazione Husky.
Mentre rileggo il volume ” Obiettivo Biscari” continua a colpirmi la ricchezza di particolari con cui gli autori hanno ricostruito la fine di Giuseppe Mangano, insegnante elementare e podestà di Acate, di suo figlio Valerio, e la scomparsa di Ernesto Mangano, Tenente del Regio Esercito Italiano, a Vittoria, cittadina della Provincia di Ragusa. E non tanto per una ideale consonanza giovanile di fede politica con l’ideologia del fascismo, che l’inesorabile falce del tempo ha reciso anche con il contributo non indifferente dei figli della Fiamma Tricolore che lasciarono la scomoda “casa (ghibellina) del padre” per la comoda “casa ( guelfa) del potere”; quanto piuttosto per le vili e non documentate parole raccattate in chissà quale sentina da coloro che usurpano il nome di storici.
Fucilato Giuseppe Mangano, assassinato con un colpo di baionetta alla guancia Valerio Mangano, scomparso senza lasciare traccia Ernesto Mangano, “emerge così un’altra storia dei ragazzi Yankee in divisa, da un lato alta e nobile, scritta da combattenti tenaci, generosi e pronti al sacrificio, dall’altra inaccettabile, imperscrutabile, fatta di eccidi di prigionieri inermi, di civili innocenti, di presunti e reali fascisti” (Andrea Augello, op. cit., p.13).
Un’altra storia che è ancora la storia dell’eccidio di Piano Stella del 13 luglio 1943, ricostruita da Gianfranco Ciriacono ne “Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella”( Coop. C.D.B. Ragusa 2003).
E’ ancora la storia del massacro dell’Aeroporto di Comiso. Secondo il giornalista inglese Alexander Clifford, testimone dell’episodio, sessanta soldati italiani e cinquanta soldati tedeschi, “catturati in prima linea, furono fatti scendere dai camion e massacrati con una mitragliatrice” (Anfora- Pepi, op. cit., p.147); secondo la versione americana, “un agente della Military Police della 45a, caricando su un camion un gruppo di prigionieri tedeschi per trasferirli dal fronte al campo di prigionia nelle retrovie, scoprì che nei camion in dotazione avrebbe potuto trasportare solo 200 dei 235 prigionieri nemici. Così egli allineò i 35 prigionieri in eccesso e li falciò con il suo mitra” ( Ibidem).
Se ciò che abbiamo scritto non è stato un inutile esercizio storico-linguistico, prende corpo la tesi che i giorni dal 9 al 14 luglio 1943 rimarranno nella memoria perché rappresentano “l’unico momento in cui gli Italo-Tedeschi rischiarono di vincere, contro ogni logica ed ogni possibile pronostico, come qualche rara volta accade sui campi di battaglia di ogni tempo” (Andrea Augello, op. cit., p.10); e perché vi vengono consumati diversi crimini di guerra, come conseguenza di un deragliamento della ragione, da parte di parecchi fanti americani della 45aDivisione, i quali considerarono il nemico vinto e arresosi non come prigioniero di guerra, ma come “figlio di puttana” da ammazzare, o per una personale e distorta interpretazione del discorso del Generale George J. Patton pronunciato alle truppe prima dello sbarco in Sicilia, o per una criminale ed efferata vendetta per la morte dei compagni caduti negli scontri a fuoco con i soldati italiani e tedeschi.

Antonio Cammarana

“Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”. Inaugurata un’importante mostra ad Acate

Letizia Zaffarana
Inaugurata dal vice sindaco Letizia Zaffarana, alla presenza di un discreto numero di appassionati d’arte, nel castello dei Principi di Biscari, la mostra intitolata “Un itinerario d’arte attraverso il ‘900”, inserita nel programma del “Settembre a Biscari 2013”. Al tavolo dei lavori Giovanni Bosco di Vittoria, titolare della galleria polifunzionale “Edoné”, che ha sottolineato che la mostra ha come obiettivo di promuovere l’arte nel territorio siciliano e favorire così l’approccio all’arte pittorica, l’assessore alla Cultura, Luigi Denaro, promotore dell’interessante iniziativa culturale, che ha ringraziato i pittori, i relatori e il comitato organizzatore e spiegato le tappe che hanno reso possibile l’evento, lo storico Antonio Cammarana, la scrittrice Maria Teresa Carrubba (pubblichiamo le due relazioni), il critico d’arte Alfredo Campo, che ha presentato i pittori e si è soffermato sul significato delle opere, il vice sindaco Letizia Zaffarana e il presidente del Consiglio comunale, Isaura Amatucci, che hanno messo in evidenza che la straordinaria mostra dà spessore alla cultura e pregio ad Acate.

innaugurazione mostra arte acate
Il prof. Giovanni Lantino ha coordinato i lavori. Il percorso artistico della mostra comprende il Futurismo, il Pixeling, l’Arte Figurativa, la Transavaguardia, l’Arte Informale, l’Arte Povera e lo Spazialismo con le opere di Lucio Fontana, Piero Dorazio, Antonio Corpora, Mino Maccaniri, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Alberto Sughi, Remo Vespignani, Giuseppe Migneco, Renato Guttuso, Michelangelo Pistoletto, Emilio Vedova, Giulio Turcato, Mauro Reggiani, Mario Schifano, Franco Angeli, Ugo Nespolo, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Mimmo Germanà, Tano Festa, Felice Casorati, Fausto Pirandello, Antonio Bueno, Fiorenzo Tomea, Antonio Nunziante, Fabrizio Clerici, Jean Calogero, Giulio D’Anna, Pippo Rizzo, Fortunato Depero, Marianna Sallemi, Federica Meli e degli artisti iblei Arturo Barbante, Vincenzo Napolitano, Maurizio Cugnata, Francesco Iacono e Gino Baglieri. Le numerose opere della mostra potranno essere visitate dal 4 al 13 ottobre, dalle ore 18 alle ore 22 nei giorni feriali, e dalle ore 10 alle 12,30 e dalle 16 alle 22 nel giorno di domenica.

Redazione (Acateweb)

Il Novecento: un itinerario storico, di Antonio Cammarana

Non è semplice indicare sinteticamente i tratti dominanti ed essenziali del Novecento, anche perché parliamo di una Storia non completamente sistematizzata e ancora soggetta ad una pluralità di contrastanti interpretazioni.
Alcuni storici definiscono il Novecento “secolo delle ideologie”, altri “secolo delle avanguardie”, altri ancora “secolo della tecnologia”. Definizioni che, assieme alle altre, confluiscono, secondo me, nella rappresentazione del Novecento come Apogeo e Simbolo della Modernità.
Antonio Cammarana innaugurazione mostra arte acate
Il Novecento si apre con “un segnale telegrafico, la lettera S, tre punti nell’Alfabeto Morse”, che, per la prima volta, ad opera dello scienziato italiano Guglielmo Marconi, attraversa l’Oceano, “viaggiando nell’etere, e non lungo un cavo sottomarino, alla velocità
di 300.000 chilometri al secondo, cioè alla velocità della luce”, gettando le basi per la grande rivoluzione delle comunicazioni transatlantiche a beneficio dell’Umanità, tanto da meritarsi nel 1909 il Premio Nobel per la Fisica.
Si afferma il fascino della velocità, di cui è simbolo l’automobile, che è venuto ad appagare il bisogno di emozione, di avventura, di rischio, secondo il proclama del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, apparso a Parigi nel 1909 nel quotidiano “Le Figaro”.
Dal nuovo mondo arriva una grande forma artistica d’Avanguardia, il Cinema, considerato “la decima Musa, che, a differenza delle sue sorelle della mitologia greca, non abita sul monte Elicona, ma in un regno tutto suo, chiamato Hollywood”, la cui figura più grande è quella di Charlie Chaplin, che ci darà due pellicole di rara bellezza: “Tempi moderni” nel 1936 e il “Grande Dittatore” nel 1940.
Nel 1914 e nel 1939 l’Europa precipita, per ben due volte, nella catastrofe della guerra, che vede prima una Germania guglielmina e imperiale, poi una Germania hitleriana e nazionalsocialista impegnata in quello che è stato chiamato “l’Assalto al potere mondiale”( Fritz Fischer,1961).
Sia nella prima come nella seconda guerra mondiale, l’umanità è stata vicinissima alla distruzione universale, ha visto i campi di sterminio e l’Olocausto, la figura più tragica inquietante e criminale del Novecento, portando milioni di esseri umani ad affermare: “Ad Auschwitz Dio non c’era!”.
Ad Auschwitz Dio non c’era, ma non c’era nemmeno ad Hiroshima e a Nagashaki, soprattutto non c’era nella mente di quei fisici nucleari americani che, a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico, guidati dal fisico Robert Hoppenheimer, direttore dei laboratori atomici, fecero la bomba atomica e la consegnarono al Presidente americano Truman per scopi militari.
Leonardo Sciascia, nel saggio “La scomparsa di Majorana”, afferma che si comportarono da uomini liberi, e furono uomini liberi, gli scienziati tedeschi che con Werner Heisemberg non fecero l’atomica, perché ne intravidero gli effetti catastrofici per l’umanità e
ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia. E, secondo me, furono filosofi, filosofi della vita, anziché essere scienziati, scienziati della morte.
Si comportarono da schiavi, e furono schiavi, gli scienziati americani che proposero l’atomica, vi lavorarono, la consegnarono al Presidente Truman, che ordinò di farla cadere in due città del Giappone accuratamente e scientificamente scelte per poterne valutare gli effetti distruttivi: “che l’obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse un’alta percentuale di edifici in legno; che non avesse, fino a quel momento, subito bombardamenti, in modo da potere accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l’unico e il definitivo”.
Nel 1941, Renato Guttuso, pittore dal forte impegno sociale, dipinge “Crocifissione”, in cui rappresenta, non solo la crocifissione di Cristo, ma la crocifissione di tutta l’umanità, resa martire dalla guerra.
L'”Osservatore romano” e il Vaticano considerano Renato Guttuso “pictor diabolicus” (pittore diabolico, pittore del diavolo) e condannano il dipinto giudicandolo eretico soprattutto per la presenza della figura della Maddalena nuda e lo propongono per la messa all’Indice dei Libri e delle Opere proibite dal Tribunale del Sant’Uffizio.
Nel 1945 l’umanità si salva dalla rovina della guerra, ma assiste impotente, alla divisione del mondo nei due blocchi contrapposti del Capitalismo e del Comunismo e al sorgere di quella realtà, che è stata chiamata “la guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica: uno “status” di forte competizione e confronto tra le più grandi nazioni del mondo che si scontrano, si attaccano, si danneggiano con ogni mezzo, politico economico propagandistico, escluso il mezzo militare.
Nel 1947 l’India, la “perla dell’Impero britannico”, ottiene l’Indipendenza dal dominio coloniale inglese, sotto la guida spirituale di Gandhi, chiamato il Mahatma, la “grande anima”, che propugna i grandi temi della non violenza e del pacifismo.
A Gandhi si ispira Martin Luther King, il “redentore dalla faccia nera”, per l’affermazione della parità dei diritti civili tra Bianchi e Neri negli Stati Uniti. Indimenticabile il suo discorso più famoso pronunciato nel 1963 al Lincoln Memorial di Washington, che incomincia con le parole ” I have a dream” -“Io ho un sogno: che un giorno questa Nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Nel 1964 gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace.
A Ghandi si ispira anche Nelson Mandela, uno dei più prestigiosi uomini politici africani, guadagnandosi, nel 1993, il Premio Nobel per la Pace per aver posto fine all’odioso regime dell’Apartheid, nel Sudafrica.
“Nel 1955 si ebbe la conferma che un nuovo mondo – il Terzo Mondo – era nato e si poneva come Terza Grande Forza accanto al blocco statunitense e al blocco sovietico.
I rappresentanti di 29 Paesi africani e asiatici, che avevano ottenuto l’Indipendenza, si incontrarono a Bandung, in Indonesia, e proclamarono la fine di ogni forma di colonialismo, dell’arretratezza e del sottosviluppo, soprattutto il rifiuto di schierarsi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica. Nascevano in questo modo, i Paesi Non Allineati”.
Nel 1963 muore Giovanni XXIII, “il Papa buono”, il Papa che, con il suo linguaggio semplice e diretto, si era rivolto a tutti gli uomini di buona volontà e aveva affermato la centralità dell’uomo nel mondo: “Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e doveri che sono universali, inviolabili, ineliminabili”.
Nella seconda metà del Novecento vive combatte e muore Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come Che Guevara, o semplicemente il Che. Diventato per milioni di intellettuali di studenti di lavoratori il Mito per eccellenza della difesa dei poveri e degli oppressi, della rivoluzione e della guerriglia del XX secolo, davanti al quale si inchinano tutti coloro che hanno vissuto, di persona e non a parole, la” Battaglia delle idee”, nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nelle Università, in tutti i luoghi di lavoro.
Nel 1968 dai Campus delle Università americane arriva in Europa e in Italia il “Vento della contestazione”, che sfocia nell’occupazione delle facoltà universitarie da parte degli studenti in lotta, che rifiutano di subire le varie forme del potere come dominio di pochi privilegiati, concetto sintetizzato dal “Time” con queste parole:” Il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente”.
Tutti i partiti politici – dalla Destra alla Sinistra – furono colti di sorpresa, nessun partito politico – dalla Destra alla Sinistra – capì che cosa spingeva un’intera generazione di studenti universitari e degli istituti superiori a mettere a rischio il loro futuro e la loro incolumità personale.
Mentre continua, negli Anni Ottanta, la contrapposizione tra le due Superpotenze si afferma, in ogni campo, “anche in quelli che nulla hanno a che fare con le Arti”, il Postmoderno, non tanto come nuovo movimento quanto come negazione di tutti i principi, i valori, i giudizi, che erano stati propri del Moderno, avendo in comune uno  Scetticismo Essenziale, un Relativismo Radicale, un Nichilismo Assoluto, che erano stati portati avanti soprattutto da Federico Nietzsche e da Martin Heidegger.
Alla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, alla riunificazione della Germania, alla dissoluzione del Comunismo in Unione Sovietica e nei Paesi del Patto di Varsavia, alla fine della “guerra fredda” hanno contribuito in modo determinante Michail Gorbaciov e Papa Giovanni Paolo II. L’uno propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka (rinnovamento) e alla Glasnost (trasparenza); l’altro, gigante della Chiesa Cattolica, con la sua instancabile azione politica e diplomatica, in campo internazionale. Questi grandi avvenimenti di fine secolo hanno dato agli Stati Uniti, per almeno un decennio, la coscienza di potere essere, nel campo militare, “l’Impero planetario”; primato che, sul piano economico, è stato messo in discussione dall’irruzione, nei mercati internazionali, della Cina e dell’India, che contano la metà della popolazione mondiale. Anche se la scienza e la tecnica ci hanno fatto guardare la terra dalla luna, si continua a non accorgersi delle sofferenze fisiche e spirituali di tanta parte dell’umanità, che, per tutta la sua lunga vita, ha cercato di alleviare quella che è considerata l’EMBLEMA del secolo che si è chiuso: Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace nel 1979, che, dall’alto della sua grandezza, ha voluto considerarsi sempre una PICCOLA MATITA nelle mani di Dio.
Sembra ieri, invece sono passati anni, decenni dall’inizio del Novecento, secolo di guerre, di distruzioni, di olocausti, come pure d’invenzioni, di conquiste, di risorse; secolo che si è chiuso lasciando aperti tanti problemi, che rimarranno sempre irrisolti se si continuerà ad ignorare che tutto nel mondo parte dall’uomo, fa riferimento all’uomo, ritorna all’uomo in modo positivo o negativo, nel bene o nel male.

Antonio Cammarana

____________________________________________

IL XX SECOLO nell’arte, di Maria Teresa Carrubba

Prima di ammirare i dipinti di questo meraviglioso percorso artistico ritengo sia necessario e indispensabile conoscere tutto ciò a cui i loro autori si sono ispirati. A volte ci si chiede cosa si può trovare di interessante nelle opere d’arte di questo magnifico itinerario oltre al bello artistico?
Vi si trova la storia, la vita, i sentimenti dell’uomo, dell’artista che vive il suo tempo. Vi si trova la giusta dose di ironia intelligente che sorregge il tema dei quadri, capace di congelare in una sola immagine LE NOTIZIE DELLE QUOTIDIANITA’.
Si raccontano attraverso la pittura le tappe fondamentali del cammino dell’umanità in un secolo, il novecento, fatto di contraddizioni e perciò complesso e tanto articolato.

teresa carrubba innaugurazione mostra arte acate
Il sogno dell’Italia unita, la pace rincorsa da una grande schiera di uomini travagliati da una crisi profonda, fu un miraggio per chi visse in un secolo segnato da due guerre, e avvertì dentro di se forte il peso di una società ingiusta e crudele.
La condizione dell’individuo sviluppò una coscienza che dava l’amara constatazione dell’assurdità della vita e dell’impossibilità di cambiarla. Spesso non vi si riusciva a trovare la connessione di una vita sociale, della comunicazione con gli altri; contemporaneamente si avvertiva l’impossibilità di sfuggire alle convenzioni, in quanto fuori da esse la vita diventava impossibile.
L’uomo comune, ma anche e ancor più l’intellettuale e l’artista, si sentiva assalito da sentimenti contrastanti, a volte avvertiva l’instabilità della propria condizione, a volte alimentava la voglia di esaltare quotidianamente la vita, a volte diffondeva nella coscienza il sapore amaro della solitudine e dell’alienazione. Essi, tutti quanti, subivano fatalmente la realtà, ma ognuno da quella realtà traeva fuori una sua verità, del tutto soggettiva e quindi diversa da quella degli altri. Molti, come i futuristi, maturarono una coscienza ribelle, un’esasperazione dell’animo, provocate da un forte senso di delusione che serpeggiò e dilagò rapidamente.
Ci si sentiva proiettati in situazioni nelle quali la linea di confine tra il sacrificio e la crudeltà era sottilissima. Posto ogni momento davanti alla necessità di dover scegliere se subire la morte o procurarla, l’uomo avvertì l’incertezza del proprio destino. La coscienza appariva insofferente a lasciarsi sottomettere da qualsiasi schema razionale, appariva angosciata e rifiutava la vita così come gli si prospettava. Per venire fuori da questo stato di cose, alcuni decisero di prendere in mano la propria sorte, di vivere fuori dalla banalità della vita comune, come gli esistenzialisti. Si andò spesso alla ricerca di una propria verità da trovare in se stesso, legata alla propria vita in particolare. Vi furono anche quelli che rivendicavano una vita fortemente individualista, rifugiandosi magari nella natura che offriva quiete e tranquillità, ritenuta l’unica capace di rasserenare gli animi angosciati.
Tra l’artista e la natura si stabiliva talvolta un’intesa perfetta, perché dal contatto e dall’osservazione di essa si traeva l’ispirazione per rappresentarla. Ma l’arte del novecento non consisteva in questo o quel tema, non aveva un motivo dominante come quella del secolo precedente, essa stava in una contrapposizione di temi, in un mobile gioco in cui la caratteristica era l’instabilità di ogni singola unità e la somma di tanti motivi. Accanto alla perpetua ricerca di un riparo riaffiorava sempre l’aspirazione all’eterna evasione da esso, al desiderio di spazi limitati e quieti si contrapponeva l’improvvisa nostalgia di vasti e diversi orizzonti, alla ricerca del tempo perduto faceva da contrasto l’infanzia ritrovata, il desiderio di una vita reale. In questa mobilissima concatenazione di contrasti, dal rifugio all’evasione, è da cercare forse l’autenticità di quest’arte fatta appunto da un continuo passaggio di temi. La maggior parte degli artisti nascevano da una crisi che portava a vedere il mondo senza significato, la loro arte manifestava una negazione estrema, un’ estrema decisione che riempiva di significato metafisico i particolari più semplici e comuni come la rappresentazione di povere creature o grandi simboli o immagini scarne e immediate, colte isolatamente. All’arte del XX° secolo si chiedeva tutto: ragioni di vita e di fede, dimenticanza e consolazione, l’orgoglio di stare solo e la forza di amare, la fiducia nell’azione al di là di ogni limite, lasciando aperto all’ispirazione tutto il sentire dell’animo.
Contro la vanità del mondo restava l’esaltazione dell’arte, ed ecco che lo scacco, il limite umano veniva esteso a tutto fuorché all’arte. Sosteneva D’Annunzio “Il mondo non è del vano conquistatore, ma dell’artefice solitario, il mondo non fu creato se non per essere convertito dall’arte in forme sovrane e immortali”. E poi accanto alla storia che faceva il suo corso camminavano gli uomini del secondo novecento, arrivarono gli anni sessanta carichi di ventate rivoluzionarie, del pluralismo, delle grandi svolte. Gli anni degli intrecci tra gli Stati Uniti, i poteri locali. Il tempo triste e buio della guerra era ormai lontano, ma c’era ancora chi nascondeva i suoi pensieri, i suoi segreti nel dipingere. La luce delle opere create, ancora il loro valore artistico rivelava la realtà interiore vissuta e rivissuta intensamente, ancora si metteva in luce nei volti dipinti la realtà di tutti i giorni, ma anche la dolcezza del temperamento.
L’artista della seconda metà del secolo in questione era antieroe per eccellenza, sempre povero, ma carico di ideali. In questo contesto incontriamo i “quattro grandi siciliani”, Guttuso, Fiume, Mignego e Caruso. Gli italiani vanno dove li porta il loro realismo, e i siciliani tanto di più, unici nella loro insularità psicologica prima che geografica. La loro arte è fatta di volti scomposti, patetici, sereni. Alcuni sono riflessivi, altri concettuali, immagini esilaranti, in cui vi si può leggere anche la follia quasi ordinaria della vita nei manicomi.
Sono tesori, un vero e proprio viaggio nel mondo e nella società di cui sono il frutto, sono esigenza di tutte le persone che vivono in un tessuto sociale come il nostro appunto che fa parte di un popolo la cui storia è così antica, così bella, ma anche dolorosa. L’arte dunque come medicina che curi l’apatia dell’uomo vittima della politica e dei fatti storici. Un’arte che fa riflettere e lascia in bocca un retrogusto persistente, il retrogusto della verità.

Maria Teresa Carrubba